Prosegue con questo dossier la nostra inchiesta su un problema che si ritiene endemico. L’insolvenza cronica del ristorante verso i fornitori di vino è un brutto segnale. Indica il punto in cui convergono due crisi: quella della ristorazione e quella del mondo vitivinicolo.
Non è stata una polemicuzza estiva, una di quelle che si innescano sul nulla, e che i primi acquazzoni portano via. Non è stato uno dei tanti allarmi che squillano in continuazione, amplificati dai media, e di cui dopo poco non resta memoria. Al contrario. E’ un tarlo che si è insinuato a poco a poco nel dibattito, un tema all’inizio persino rifiutato da molti con fastidio. Chi ha detto che era cosa vecchia, chi ha detto che era cosa marginale, chi l’ha negato tout court. E invece il dilagare del fenomeno della dilazione sine die del pagamento delle forniture in vino, fino alla cronicizzazione, fino quasi al limite della normalizzazione dell’insolvenza, è un segnale che vale la pena di cogliere e di valutare attentamente. Come per il fenomeno dell’evasione fiscale ristoratori = evasori occorre leggere bene dietro le apparenze, e prima di accodarsi al solito coro ristoratori ladri! è meglio cercare di approfondire. Intanto chiediamoci perchè proprio adesso viene alla ribalta questo problema. I cattivi pagatori non sono una novità, nel mondo del commercio. E anche la ristorazione ha sempre fatto la sua parte. La merce vino però sembra aver avuto un destino particolare, negli ultimi anni. Le modalità di pagamento si sono evolute piuttosto rapidamente a favore del compratore: saldi patteggiati con una crescente dilazione (da 30 giorni a 60, poi a 90, poi a 180, poi a 200, e chi ci riesce strappa condizioni ancora migliori). Ormai ci si rivolge al venditore come ci si rivolgerebbe ad un familiare, o a un caro amico che ci ha prestato dei soldi: te li dò quando posso. Si affacciano persino forme inedite (e inusitate, per il settore) come il conto vendita: il vino te lo pago solo se lo vendo a mia volta. Questa deriva ha creato un clima particolare, ha innescato un fenomeno imitativo che alla fine sta coinvolgendo molti, e non si tratta solo dei soliti furbi o di qualche poco di buono. L’ampiezza del fenomeno spiega anche perchè sia diventato problematico mettere in atto forme di prevenzione: finchè a non pagare con puntualità sono quattro farabuttelli, li si liquida abbastanza facilmente. Basta toglierli dalla lista dei clienti, e far correre in giro la voce, perchè altri non ci caschino. Ma quando la percentuale dei ritardatari (o addirittura degli insolventi) aumenta in modo esponenziale, lavorare sulla selezione si fa più complesso. Qualcuno (pochi) taglia la testa al toro vendendo solo a chi paga in contrassegno, ma è una strada in salita. La crescente insofferenza verso il pagamento delle forniture di vino sembra sia una specificità tutta italiana, ed è anche per questo che tanti preferiscono piazzare il proprio prodotto all’estero. Le classiche strategie di contrasto (rivolgersi prima ad un’agenzia di recupero crediti e poi alla giustizia) non sono sempre convenienti, e a volte può essere addirittura preferibile lasciar perdere, e rassegnarsi ad avere nei bilanci un passivo fisso collegato a questa voce. Alcune Aziende forse sono anche tentate di scaricare sui listini i costi dei mancati o ultraritardati pagamenti, quindi ridistribuendo il danno subìto dai cattivi pagatori tra i buoni. Col grave rischio di perdere anche quelli…
Bene; delineato a grandi linee il quadro della situazione, resta da fare il più: cercare di spiegare i motivi per cui siamo arrivati a questo punto.
A mio avviso una lettura corretta non può prescindere dal quadro globale, quadro in cui il mondo dei ristoratori e quello dei produttori vitivinicoli sono connessi in una stretta relazione, e ciò che accade agli uni non può che ripercuotersi in qualche modo sugli altri, prima o poi. Semplicisticamente potremmo dire che la crisi sta travolgendo entrambi, come del resto sembrerebbe abbastanza logico: si tratta di settori legati al buon vivere, all’edonismo, a quel “di più” che nei momenti di panico è il primo a sparire.
Ma cerchiamo di fare un passettino avanti nell’analisi, partendo dalle problematiche del mondo del vino. Molti produttori sono stati presi in contropiede dal ribaltone che ha colpito il settore nel momento in cui è scoppiata la bolla del vino virtuale, in cui è avvenuto il ridimensionamento, il ritorno sulla terra dopo l’ubriacatura dei vins de garage, dei produttori inesistenti portati in trionfo dalle guide, dei vini grandissimi prodotti un anno sì e quattro no, di un’ascesa vertiginosa dei prezzi anche per segmenti della produzione che un tempo non sarebbero neppure entrati in bottiglia. Al momento del brusco dietrofront, molti sono rimasti con un palmo di naso, con le cantine piene di invenduto, e con una gran voglia di cambiar mestiere. Molto prodotto ha subìto un processo di svalutazione, sono cominciate a correre le voci su questo e quel produttore, anche importante, che il vino ormai te lo tira dietro. Certo: è evidente che quella parte del mondo produttivo che si è trovata in questo stato aveva bisogno come il pane di un rilancio, e da dove sarebbe potuto arrivare, se non dalla ristorazione? Ecco allora il grande sforzo per favorire chi bene o male costituisce il tramite tra prodotto e cliente interessato. Quel cliente che frequenta la buona ristorazione può essere effettivamente un punto di ripartenza, può fare da vettore e da traino per la ripresa. Da qui un’ulteriore apertura di credito (metaforica e reale) verso il proprio partner elettivo, confidando che potesse venirne una nuova spinta propulsiva. Si dirà che è stata una scelta obbligata, più che una strategia. In ogni caso, è questa la logica che ha orientato il mondo del vino nell’accentuare un atteggiamento fiduciario nei confronti della ristorazione.
E quest’ultima, come ha risposto? Se in linea di principio è vero che il ristorante rappresenta la vetrina del vino, cioè – insieme all’enoteca – il luogo dove esso maggiormente si promuove e si valorizza, è anche vero che oggi, vivendo un momento di acuta decadenza, non è più in grado di sostenere, soprattutto nella fascia intermedia degli esercizi, quegli standard che sono necessari per creare il clima, l’atmosfera adatta a fare da cornice al vino di qualità. Qui sono due debolezze che si incontrano, e la somma non è una forza. La ristorazione deve affrontare le grandi mutazioni in atto, la riduzione della clientela e i cambiamenti nella domanda, per cui è tutta impegnata a ricollocarsi, a ritrovare la dimensione giusta. Il vino è sempre stato un elemento delicato, critico, problematico, ed ora lo è ancora di più. Gli equilibri interni sono fragili, basta un nonnulla a farli saltare. Il vino è quella voce che crea prestigio ma facilmente fa sballare i conti. Da quando mi occupo di enogastronomia (e ormai è una vita) ho sempre sentito lamentare l’eccessivo ricarico sulla bottiglia di vino al tavolo del ristorante. La questione sembra assumere ora una valenza se possibile ancora maggiore. Daremo spazio anche a questo argomento, intrecciandolo con quello della grande trasformazione che sta avvenendo nel mondo dei locali, perchè secondo noi sono snodi decisivi, la cui migliore comprensione ci aiuterà a fare luce anche su fenomeni abnormi come l’epidemia di insolvenza da cui siamo partiti.
La stagione dei cento fiori
Il tema del ricarico, e in generale quello del ruolo del vino nel ristorante, deve tener conto delle differenze tra le varie fasce di esercizi, perchè le logiche possono cambiare profondamente. A questo proposito va detto che oggi la tendenza sembra quella di tornare al passato, in un certo senso, per quanto riguarda la rigidità delle classificazioni, dopo un trentennio in cui era stata grande la confusione sotto il cielo. A partire dagli anni ‘80 c’è stato un notevole rimescolamento di carte, il trionfare di un allegro caos. Molte nuove tipologie di locali sono andate ad arricchire la gamma delle possibilità, con una maggior poliedricità dell’offerta, occupando spazi prima lasciati vuoti, inserendosi nelle intercapedini tra le fasce tradizionali della ristorazione, e mettendole anche in contatto tra di loro: il locale che sta tra il ristorante e la vineria, in un certo qual modo mette in relazione i due mondi, annulla il confine che esisteva tra due realtà diverse per origine e cultura. Anche dal punto di vista del prezzo di riferimento il discorso si è fatto più fluido: la versatilità e la polivalenza di tanti nuovi locali ha reso difficile classificarli a priori e rinchiuderli dentro una categoria precisa. Nel medesimo locale si consuma un piatto di salumi e un calice di vino e si spendono 20 euro, ma si può anche cenare in grande stile e spenderne 80 o più. Con tutti i gradini intermedi.
Come mangiano in India? Boh…
Un altro aspetto che ha contribuito a far saltare gli schemi convenzionali è stata la crescita impetuosa degli esotici, locali che si prestano a forti oscillazioni nel conto: dinanzi ad un elenco di piatti sconosciuti, ognuno si sente autorizzato a comporre il proprio menu come meglio crede, e questo ovviamente si traduce in grandissime differenze al momento dell’esborso. Per cui sarà facile sentire qualcuno decantare l’economicità dei ristoranti indiani e qualcun altro dire che sono costosi: dipende dalla personale interpretazione che ciascuno ha dato del modo in cui bisogna mangiare in quella particolare tipologia di locali per essere aderenti al loro spirito originale. Poi non va dimenticato il fenomeno dei locali alla moda, sempre esistito ma cresciuto fortemente proprio a partire dagli anni ‘80. In questi locali ciò che paghi non è un servizio, ma un privilegio, quindi da un lato difficilmente quantificabile e dall’altro soggetto a continue variazioni (se il ristorante non è più così in, il privilegio sarà minore).
Piatti chiari
Ebbene, questo quadro generale figlio di una fase di sviluppo della ristorazione, con la congiuntura economica gravissima degli ultimi anni è entrato in crisi. Ciò che non viene più accettato dalla clientela è proprio la nebulosità tipologica dei locali. Nei posti in cui non si sa bene quanto si andrà a spendere, la gente ci va meno volentieri. Anche se il locale ha una formula eclettica, e in ultima istanza la scelta di quanto spendere resta sempre in mano al cliente, quest’ultimo non si sente del tutto a suo agio, teme di dover fare troppe rinunce per restare nel proprio budget, e alla fine preferisce posti magari meno accattivanti ma dove sa di andare su un terreno più solido e sicuro. E laddove prima tendeva a soprassedere, pagando senza fare troppi drammi 60 euro ciò che valeva 45, oggi sta molto più in guardia ed è psicologicamente orientato a dare un rilievo diverso ad ogni scalino della gamma dei prezzi. E’ meno indulgente e più attento al proprio interesse. Infatti si chiede perchè il 45 non diventi 40 (arrotondamento a suo favore) e il 60 non gli appare più come un rigonfiamento un po’ eccessivo del 45, dovuto a qualche circostanza occasionale, ma come una fascia tipologica superiore, a cui dovrà corrispondere una prestazione complessiva di livello sensibilmente più alto. Ecco quindi che di riflesso tornano a formarsi raggruppamenti dai confini più rigidi, e a entrare in sofferenza quei locali che per la loro stessa natura sono più elastici, con una grandissima variabilità nel conto finale. Quello che fino a poco tempo fa era un pregio, sta diventando un handicap. Perchè da un esercizio di ristorazione oggi si richiede (molto più di qualche anno fa) chiarezza programmatica: patti (o piatti) chiari, amicizia lunga. Sei della fascia 40 o della fascia 60? Dimmelo prima perchè non voglio sorprese. Questa è la nuova domanda, e l’offerta un po’ alla volta si adegua.
Vino: pericolo e salvezza
In tale contesto si inserisce il vino la cui caratteristica, dal punto di vista della clientela, è proprio quella di influire sul conto come variabile indipendente, a volte come variabile impazzita, cioè proprio quello che il cliente attuale più aborrisce. Al contrario, dal punto di vista del ristoratore, il vino è una delle poche ancore di salvezza rimaste. Infatti nei bilanci è l’unica voce che consente l’individuazione certa del rapporto fra costi e ricavi, visto che non ha bisogno di essere trasformato, ma così come lo si acquista è già pronto per la vendita (almeno nella fascia medio-bassa della ristorazione). Viene perciò spontaneo considerarlo come una sorta di refugium peccatorum, quando vige la massima incertezza su tutto il resto. Rischio per il cliente, sicurezza per il ristoratore: questo duplice statuto del vino è un po’ all’origine dell’incomunicabilità che a volte vediamo sorgere tra chi offre il servizio e chi ne fruisce.
Mondi lontanissimi
Dicevamo dunque che si è tornati, o si sta tornando, a classificazioni più nette degli esercizi, in controtendenza rispetto a quelli che erano stati i mutamenti dell’ultimo trentennio. Ma al contempo si è concretizzato anche un altro fenomeno. Si è fatto più ampio il divario tra la base e il vertice della piramide: i due poli si allontanano, diventano due pianeti diversi, ciascuno con una sua forza di attrazione, sempre più potente man mano che si allontana dall’altro. E in mezzo si fa il vuoto. Per cui se da un lato è vero che il cliente impoverito e impaurito avverte più netta la differenza, per esempio, tra un locale da 40 e uno da 60 euro, è anche vero che entrambi i locali tenderanno ad appiattirsi verso il basso, risucchiati dal medesimo polo d’attrazione. Cosa significa? Significa che tenderanno entrambi ad applicare la logica commerciale dei locali di fascia più bassa.
La dura legge dello sfuso
Ma mentre nella fascia bassa funziona da sempre una formula semplice ed efficace, che facendo leva sui grandi numeri consente di tenere giù i prezzi con un livello qualitativo almeno accettabile (o comunque percepito come tale dalla clientela), la fascia intermedia di locali spesso difetta proprio sul requisito chiave: il numero dei coperti. Quindi se vuol battagliare con la fascia bassa sul suo stesso terreno è giocoforza costretta ad interventi di alta ingegneria sul rapporto tra qualità e prezzo. Il vino in bottiglia è un punto nevralgico di questa manovra. I locali più popolari usano per esempio molto vino sfuso, su cui il ricarico è superiore rispetto a quello sull’imbottigliato e il guadagno percentualmente più alto. Allora nella fascia intermedia si cercherà di estendere quello stesso criterio anche al vino in bottiglia. Ma ci sono delle difficoltà evidenti, e per superarle si dovrà ricorrere a qualche escamotage.
Monumento
al produttore ignoto
Per esempio si giocherà sul presupposto che il proprio cliente non è in grado di valutare all’assaggio il valore intrinseco del prodotto, la sua probabile fascia di prezzo all’origine, e quindi l’entità del ricarico che è stato applicato. Può casomai avere dei riferimenti mnemonici a proposito di marchi commercialmente noti e su cui è probabile che abbia almeno una vaga idea anche del prezzo corrente, avendo visto magari quei prodotti sugli scaffali di un supermercato, o avendoli addirittura acquistati lui stesso. In tal caso un ricarico palesemente sproporzionato salterebbe agli occhi. Meglio allora infarcire la carta con vini di produttori i cui nomi al cliente non dicono nulla, e su cui poter agire più liberamente riguardo ai ricarichi. Il ricarico, e la sua eventuale sproporzione, devono essere dettagli noti solo al ristoratore. Ed al rappresentante, nel caso che se ne utilizzi uno (ma di questa figura, e del suo ruolo, parleremo più avanti). Sull’assunto iniziale, cioè la totale incompetenza del cliente, ci sarebbe da discutere: c’è una percentuale di avventori che proviene da una fascia sociale superiore, e che ora frequenta determinati locali solo perchè infuria la crisi economica, ma che è di un livello culturale più alto, anche in fatto di cibi e vini.
Una scelta difficile
E con questo, torniamo al discorso generale. Quanto accade oggi non è in fin dei conti che la ripercussione sul mondo dei ristoranti di quel fenomeno sociale chiamato proletarizzazione dei ceti medi. Nel momento in cui il ceto medio si impoverisce, i suoi locali di riferimento in teoria sembrano non avere che due alternative: seguire la clientela che si sposta verso il basso, o abbandonarla per tentare la scalata verso il vertice. La seconda è la più affascinante, ma anche la più difficile. Occorrono investimenti, professionalità, e coi tempi che corrono anche molta fortuna. Nella realtà di ogni giorno non sempre però le scelte sono così nette. Si procede piuttosto per aggiustamenti. Spesso assistiamo al tentativo di non far troppo pesare l’inevitabile scivolamento verso il basso, con espedienti talora geniali ma a volte anche patetici.
Tutti i colori
del grigio
Il luogo privilegiato di questi mutamenti è soprattutto quell’ampia zona grigia, ma per altri versi coloratissima, dei ristorantini, dei locali sfiziosetti, particolari, diversi magari per il look (che a un certo punto sembrava essere l’aspetto più importante) o per la proposta gastronomica innovativa (o sedicente tale: la famosa e ormai famigerata fusion) o per altre specificità (esotici, vegetariani, macrobiotici ecc. ecc.). Oppure locali trendy, frequentati da chi vuol farsi vedere, non necessariamente ricco, ma aspirante tale, o desideroso di respirare la stessa aria del VIP di turno. O da chi desidera appartenere (o far credere di appartenere) ad un determinato ambiente (gli intellettuali, gli ecologisti, gli orientalisti, o altre conventicole). Si tratta spesso di meteore: brillano intensamente ma per una breve stagione, presto soppiantati da rivali più aggiornati alla tendenza del momento. I loro frequentatori, fino a ieri, non facevano troppo caso al lievitare del conto, spesso davvero abnorme, oppure preferivano far finta di niente, per evitare brutte figure.
Con l’acqua
alla gola
Invece oggi la chiave di volta è proprio il prezzo: più si avvicina pericolosamente a quello dei ristoranti gourmet, o comunque al margine inferiore della fascia alta (poniamo il limite simbolico attorno ai 100 euro, anche se poi questo limite può oscillare da città a città, da zona a zona, da Nord a Sud, e via dicendo), e più questi locali rivelano la loro inadeguatezza. Il loro rapporto qualità/prezzo non è paragonabile con locali che presentano un conto analogo, o solo appena un po’ superiore, ma cominciano realmente ad essere importanti per la validità intrinseca della loro proposta, per le solide basi su cui poggiano, per un insieme armonioso che rende significativa l’esperienza del cliente. Il variopinto esercito dei localini intriganti e alla moda oggi non è scomparso dalla scena, al contrario: cerca di mettersi in mostra ancora di più, sgomitando, invadendo con le proprie pubblicità le pagine dei giornali, le radio, le tivvù e la Rete. Ma è un agitarsi ormai un po’ disperato, come di chi sta per annegare.
Clientela normale,
senza farsi male
Molti dovranno rimettersi in discussione, e c’è già chi si sta dando da fare per reinventare il proprio profilo. Ho notato una certa quota di locali cominciare a cambiar pelle. Menu che si accorciano, prezzi che calano, tovagliette individuali di giunco che prendono il posto dei bei tovagliati di stoffa, proposte gastronomiche un po’ meno eccentriche che strizzano l’occhio ad una clientela più normale, giovani ma anche meno giovani, e ben vengano le famiglie. Intendiamoci, anche questa mutazione ha i suoi rischi: innanzitutto quello che il processo di ridimensionamento e normalizzazione faccia smarrire a questi locali la loro identità, la loro anima, la loro stessa ragion d’essere. Che faccia perdere proprio quell’appeal che attraeva una clientela giovane, vivace, curiosa. L’abilità di chi li gestisce sta tutta qui: trovare un difficile equilibrio tra esigenze diverse. Stare coi piedi molto a terra ma al contempo evitare l’anonimato.
La bottiglia? Non prendetela!
Per quel che riguarda la fascia di prezzo, si cerca di attestarsi sulla Maginot dei 40 euro. Ma dentro questa cifra oggi devono starci anche le bevande, o comunque farla superare di poco. Il problema vino ognuno cerca di risolverlo come meglio può e sa. Ci sono anche quelli che hanno trovato soluzioni drastiche: per esempio apporre, ai vini in carta, prezzi così esosi e fuori mercato da scoraggiare ogni persona ragionevole. Il cliente non cadrà in tentazione, berrà lo sfuso o una birra alla spina, e il suo conto non subirà eccessivi sobbalzi. Vi sembra un’assurdità? Anche a me, ma mi risulta che non siano poi così pochi i locali che attuano questa strategia dissuasiva. Certo, così si rinuncia a quel guadagno pulito che solo il vino assicura, ma non si corre neppure il rischio che il cliente superi senza accorgersene il plafond prestabilito, condizione essenziale per vederlo tornare. Un sistema discutibile, ma le alternative del resto non sono moltissime.
Laggiù, al prezzo-sorgente
L’ipotesi dei bassi ricarichi è di solito la prima a venire esclusa. Tra l’altro i famigerati Studi di Settore dell’Agenzia delle Entrate hanno stabilito per il ricarico del vino parametri precisi. E guai a chi non li rispetta. Esercizi che hanno proposto il vino al tavolo solo con delle piccole maggiorazioni rispetto al prezzo di costo, per incentivarne il consumo, si sono ritrovati ai ferri corti con il fisco. Non resta allora che una strada praticabile: tenersi molto bassi sul prezzo-sorgente, in modo da poter poi applicare ricarichi anche consistenti senza però che il prezzo finale appaia inarrivabile al cliente. Questa operazione la si può fare in vari modi: con intelligenza e attenzione per la qualità o con superficialità e spirito truffaldino. Tutto dipende dalla personalità del gestore e dal suo livello professionale.
Agente Zero Zero Zero
(solo zero)
Anche l’eventuale scelta di qualcuno che ci aiuti a comporre la nostra carta dei vini può essere fatta a ragion veduta o in modo casuale, per forza d’inerzia. Ed è decisivo anche il ruolo che intendiamo assegnare a costui, o a costoro: vogliamo semplicemente qualcuno a cui delegare in toto il fastidio di scegliere il vino o vogliamo qualcuno con cui dialogare in modo paritario, un assistente e un consigliere? Di solito capita di trovarsi tra i piedi qualche rappresentante, magari di ereditarlo da gestioni precedenti, e di accettarne il ruolo per pura pigrizia. Questo atteggiamento passivo è tipico di chi non possiede la benchè minima nozione sul tema vino, non lo reputa importante, ne farebbe volentieri a meno. Un tale soggetto, così come non intende perder tempo a selezionare i vini, non intende perderlo per selezionare chi lo aiuterà (o addirittura lo sostituirà) in questo compito. Più facile perciò che cada vittima di personaggi poco professionali, agenti senza qualità, venditori ben lieti di avere a che fare con un compratore ignorante e magari anche stupido (come lo sono spesso coloro che si reputano furbi).
L’ambrosia non costa
tre euro
Ma mettiamo il caso che un ristoratore non troppo preparato decida, magari per diffidenza o per un eccesso di autostima, di bypassare tutte le intermediazioni, pensando di ottenere risultati migliori facendo da sè. Mettiamo che si procuri il vino acquistandolo presso qualche catena di supermercati meno conosciuta, dove è possibile trovare lo Chardonnay a 3 euro di qualche oscura cantina. Che ricarico potrà applicare? Sa benissimo di aver acquisito un prodotto di serie C (o peggio), e probabilmente non avrà il coraggio di spingersi oltre il 300%, proponendo il vino a 9/10 euro, anche perchè si rende conto che sopra quella cifra l’incidenza della bottiglia per un tavolo da due persone sarebbe eccessiva e che la sproporzione tra la qualità e il prezzo si farebbe così abissale da risultare alla fine manifesta persino ad una clientela non particolarmente avveduta.
Questo è un esempio di percorso tutto sommato abbastanza lineare, in cui il ristoratore ha un’idea del valore vero del prodotto che acquista, e lo stesso, grosso modo, si può dire per il cliente: nessuno è (o dovrebbe essere) tanto ingenuo da illudersi che quella bottiglia, a quel prezzo, sia un nettare degli Dei.
Illusione,
disinganno e fuga
Se entra in gioco il rappresentante, la cosa potrebbe prendere una piega diversa. E’ possibile (non sarebbe la prima volta) che questi proponga vinelli qualsiasi ammantandoli di un alone di pregio, spacciandoli per sue geniali scoperte, vendendoceli a 4 o 5 euro, e facendoci sentire autorizzati a quadruplicare, grosso modo, quel prezzo sulla carta, proponendoli a 18 euro (perchè il vino li vale). Il ristoratore sta al gioco, più o meno in buona fede, e a sua volta spinge quei vini ai tavoli con argomentazioni esageratamente elogiative, coinvolgendo nell’inganno anche l’ignara clientela. E soprattutto favorendo un generale innalzamento dei conti senza aver innalzato in modo sostanziale la qualità. Il beneficio economico di tale politica, se ci sarà, durerà poco. Si ripresenterà prestissimo il problema della fascia di prezzo, che per i locali come il suo ormai non può più essere sforata. Si dovrà fare precipitosamente marcia indietro. E rifugiarsi nel famoso Chardonnay a 3 euro del supermercato, che presenta tra l’altro il vantaggio di poter essere preso quando serve e solo nelle quantità necessarie, mentre lavorando coi rappresentanti si è spesso costretti a immagazzinare prodotto senza la certezza di smerciarlo nei tempi giusti.
Uno bravo basta,
ma due sono meglio
La situazione or ora descritta è piuttosto deprimente. Siamo vicini al grado zero della professionalità, al di sotto di quel minimo necessario per intraprendere l’attività di ristoratore, da un lato, e di rappresentante di vini, dall’altro. Sono purtroppo realtà che si incontrano più spesso di quanto vorremmo. Sono anch’esse in gran parte residuali di un’epoca espansiva di entrambi i comparti, il cui sviluppo per un certo periodo è stato caotico e sfrenato, ed ha fatto da calamita per una folla di improvvisatori. Ci sono anche realtà diverse, per fortuna. Quella che dovrebbe essere la più normale, sembra invece la più difficile a praticarsi poichè richiede il concorso, la sinergia, di due professionalità. Al limite ne basterebbe anche una sola: in teoria dovrebbe essere infatti l’imprenditore stesso a possedere una solida base di nozioni anche rispetto al vino, che bene o male oggi è parte integrante della sua attività. Se il titolare del ristorante è preparato, non dovrà essere preso per mano da altri. Ma può sempre aver bisogno di qualche informazione un po’ più aggiornata sul mercato del vino, non potendone seguire in prima persona tutte le evoluzioni e le trasformazioni. Bene, questo apporto può essere effettivamente fornito da una figura di agente-consulente, purchè a sua volta sia di un livello un po’ più alto.
L’altra faccia della medaglia
Esiste, e va onestamente segnalata, anche una quota di agenti che svolge un ruolo educativo rispetto alla ristorazione di fascia media o medio-bassa. Fanno un buon lavoro di ricerca e propongono spesso cose interessanti. Con loro si può instaurare un rapporto trasparente, basato sulla chiarezza reciproca. Si sono messi al servizio di quella ristorazione che non ha grandi mezzi ma ha comunque la voglia di stare con dignità sul mercato. Per questa fascia hanno la proposta giusta: prodotti ancora sconosciuti ma realmente validi, con una marcia in più.
Il ricarico potrà essere interessante (si tratta di vini ancora poco costosi), ma al contempo il prezzo in carta rimarrà comunque accessibile. E se anche farà leggermente lievitare il conto, questo avverrà a fronte di una maggior soddisfazione della clientela. Tutti contenti: il ristoratore, il cliente e non ultima l’azienda vitivinicola, il cui nome comincia ad avere una circolazione e una promozione. Questo è il tipo di rappresentante che fa crescere il settore: svolge realmente quel ruolo di talent scout del vino che invece altri suoi colleghi fingono soltanto di svolgere, non avendone nè la capacità nè la voglia.
La diffidenza non è una virtù
Certo, il discorso può essere anche capovolto, se ci si mette nell’ottica di questi agenti propositivi che spesso si sentono incompresi. “Noi – si lamenta qualcuno – per poter lavorare, abbiamo bisogno di un riscontro nei ristoratori: un interesse, una curiosità, almeno un’apertura. Se l’altro è completamente impermeabile, non ci sarà nulla da fare“.
E’ verissimo, e conferma quanto dicevamo prima: solo sommando le energie e le attitudini positive di tutti gli operatori coinvolti si ottengono buoni risultati. Si potrà obiettare che una certa diffidenza da parte del ristoratore è più che giustificata, visti i soggetti che si aggirano in questo ambiente. I ristoratori diffidenti corrono meno il rischio di cadere preda di rappresentanti furbetti. Anche questo è vero, ma la diffidenza, ammesso e non concesso che in sè sia una dote, non può bastare per muoversi in un mondo che agli imprenditori richiederebbe ben altri requisiti e ben altro spirito.
Ciechi & sordi S.p.A.
Già, perchè il ristoratore sveglio scopre velocemente le nuove opportunità. Scopre, per esempio, che oggi ci sono anche altre alternative per rifornire la cantina. Alcuni grandi distributori di bevande hanno esteso il loro raggio d’azione dalle acque minerali ai vini di pregio. Intrattengono rapporti privilegiati con un gran numero di produttori, praticano prezzi abbastanza interessanti, e stanno cominciando a qualificarsi con serietà, acquisendo professionalità specifiche e collaboratori preparati. Tanto da svolgere anch’esse, alla fine, un ruolo orientativo e didattico per quegli imprenditori che non possiedono ancora le basi per fare un lavoro di un certo tipo. Grazie alla capillarità e all’efficienza del servizio possono coronare il sogno di tanti ristoratori in ambasce per i problemi dello stoccaggio del vino: fornire le tipologie e le quantità desiderate nel momento in cui realmente occorrono. E si arriverà presto (se non ci si è già arrivati) ad un servizio in real time: potremo farci recapitare una bottiglia in pochi minuti, in pratica richiedendola al distributore al momento in cui il cliente la ordina. Insomma: l’approvvigionamento del vino oggi può essere personalizzato con un sapiente mix di modalità diverse, sfruttando sia le forme tradizionali che quelle innovative. Ma i ciechi non vedono, e i sordi non sentono.
La Santa Alleanza
Per comodità espositiva, e per non annoiare il lettore, abbiamo descritto delle realtà estreme: i cattivi rappresentanti e quelli buoni, i ristoratori preparati e quelli senza basi e senza idee. Ma per entrambe le categorie (come accade del resto in tutte le professioni) esiste un’ampia fascia intermedia, in cui coesiste il buono e il meno buono. Talvolta c’è una sorta di compensazione, e i risultati sono accettabili. Altre volte sembra che al peggio non ci sia fine. Purtroppo, quando si parla di vino, assistiamo spesso al sommarsi dell’insipienza dei vari operatori in gioco: la Santa Alleanza tra ristoratori miopi e ignoranti, rappresentanti troppo furbi – e magari mettiamoci pure le aziende vitivinicole poco serie (purtroppo ce ne sono) – produce effetti devastanti per tutti, di cui poi l’utente finale, ultimo anello della catena, paga le spese. Si ha un bel dire che non c’è abbastanza maturità nel cliente-consumatore, e che spesso viene gabbato perchè lui stesso si mette nelle condizioni ideali per subire quella sorte, ma come possiamo pretendere proprio da lui quelle conoscenze e quelle attenzioni di cui sono totalmente privi i soggetti che per statuto dovrebbero averle?
Il pesce comincia a puzzare dalla testa, ed è da lì che bisogna avviare il rinnovamento: cominciamo a cambiare le cose tra gli addetti ai lavori, poi vedremo.
Come scotta,
la soglia del Paradiso
Abbiamo detto all’inizio che la problematica vino al ristorante va inquadrata all’interno delle varie fasce tipologiche. Una l’abbiamo appena vista: è quella che vuole proporsi come alternativa più saltuaria alla pizzeria, con un conto più alto ma non troppo. Locali che il ceto medio impoverito può ancora frequentare, e dove le giovani coppie possono cenare il sabato sera a lume di candela senza dover poi rinunciare al cinema. Al di sopra, salendo di gradino in gradino, il discorso si fa sempre più difficile, finchè non si arriva alle soglie della categoria top, dove cambiano in modo radicale i parametri. Stare su quella soglia, o a ridosso di essa, oggi vuol dire stare su un terreno che scotta. Per esempio i ristoranti con un conto che facilmente si avvicina ai 100 euro rischiano grosso: troppo cari per la clientela normale, ma non sempre appetibili da quella élite che frequenta abitualmente i top class.
Cosa c’è nella scatola
La critica guarda a questi locali con la curiosità, e con l’attenzione dello scopritore di talenti, ma non è disposta a fare sconti, al contrario: sarà particolarmente severa con chi aspira ad entrare nell’olimpo senza averne i requisiti. Per esempio, quando il prezzo elevato si giustifica quasi solo con elementi esteriori, ambienti lussuosi e studiate scenografie, presentazioni reboanti, proposte genialoidi, si può forse acchiappare il cliente ingenuo, che magari pensa di poter fare la grande esperienza a buon mercato (vuole avere qualcosa di mitico da raccontare agli amici senza pagare il prezzo di un locale pluristellato), ma certo non si riuscirà a convincere chi è in possesso di riferimenti gastroculturali per fare dei raffront
Una gran rottura (di vetri)
Anche riguardo al vino, che è qui l’oggetto specifico della nostra riflessione, quando si sale di categoria l’impostazione generale cambia. Resta valido, in linea di principio, il discorso sul vino come fonte sicura di guadagno, ma viene un po’ ridimensionato nei termini. Infatti, mentre nel locale medio-basso non vi sono costi aggiuntivi che pesano sulla bottiglia, in quello di livello superiore esistono alcune voci importanti e irrinunciabili che riguardano in primis il servizio: personale (il sommelier, o i sommeliers) e attrezzature (bicchieri, caraffe da decantazione, ecc.). Queste ultime sono soggette a deterioramento, oltre a richiedere maggior cura nella manutenzione. C’è poi il problema di gestire vecchie annate di molti vini importanti, cosa da cui è pressochè esonerato l’esercizio di livello molto inferiore, che al massimo potrà avere in carta un Barolo e un Brunello per ogni evenienza, di cui terrà da parte due o tre bottiglie. Una grande cantina, con un grande assortimento di etichette, oltre all’immobilizzo di capitali, significa anche ore supplementari di lavoro per una corretta movimentazione. Tutti questi elementi sembrerebbero giustificare ampiamente ricarichi superiori.
O la bottiglia o niente
Ma ci sono altre valutazioni da fare, che invece spingono in direzione contraria. La più ovvia: è chiaro che nella carta di un locale importante entreranno solo etichette importanti, cioè mediamente piuttosto costose. Esagerare coi ricarichi può voler dire solo due cose: o che si intende esercitare sull’avventore una pressione intimidatoria e dissuasiva nei riguardi del vino (come fanno alcuni locali di fascia medio-bassa per non far lievitare i conti) oppure, viceversa, si vuol operare una selezione spasmodica della clientela, facendo leva soprattutto sui conti stellari, più che sulla qualità intrinseca di ciò che si propone. Entrambe le cose non sono degne di un grande ristorante.
Altro elemento che in linea di principio dovrebbe sconsigliare ricarichi eccessivi è il seguente: mentre in una certa tipologia di locali la bottiglia è un optional, tant’è vero che la maggior parte dei clienti non la richiede, in un’altra è praticamente un obbligo, anche perchè non ci sono alternative. Ora: va bene che il pubblico dei ristoranti top ha mezzi illimitati (forse…), ma una norma di elementare correttezza impone di non approfittarsi biecamente di chi non ha scelta.
La zappa sui piedi
Ma c’è anche dell’altro. Bisogna tener conto che più si sale di livello e più la clientela è consapevole; più ci si mette in mostra e più si è sotto i riflettori della critica specializzata. Da questo punto di vista, per un ristorante che ambisce ad essere un grande, il ricarico eccessivo sul vino è perciò una scelta miope, controproducente, quasi autolesionistica. Il suo gioco sporco verrà subito scoperto e denunciato, con notevole nocumento di immagine per il locale. La carta dei vini è una cartina di tornasole per chi vuol leggere tra le righe e comprendere se il ristorante è davvero un grande, o sulla strada di diventarlo.
Questa è una cosa notoria. La logica con cui sono state selezionate le etichette, e il ricarico applicato a ciascun singolo vino, racconta molto della filosofia di fondo di chi gestisce l’esercizio, filosofia che si riverbererà su tutto l’insieme, e non solo sul vino. Quando sento dire che in un certo locale di vaglia i ricarichi sul vino sono esorbitanti, io consiglio senz’altro di non andarci. Quel dettaglio mi dice che qualcosa non va, nel progetto. E non sono certo il solo a pensarla così.
Si rivaluta? Lo ricarico!
Fin qui il discorso in generale. Ma ci sono delle eccezioni? Esistono casi in cui, per ragioni oggettive, è giustificabile un ricarico più elevato? Per esempio: è corretto applicare un sostanzioso ricarico sui quei vini che il ristoratore conserva da anni nella propria cantina? Abbiamo già accennato a questa questione, ma vale la pena approfondirla. Intervenendo in un dibattito on-line su questo stesso tema, il ristoratore Arturo Dori ha scritto: “Un fattore molto importante contribuisce alla determinazione del ricarico sul prezzo di acquisto dei vini e cioè la rotazione di magazzino. Come tutti sanno il valore del magazzino, ai fini del bilancio, è una attività e questo contribuisce ogni anno alla determinazione delle tasse da pagare. Se io ho in carta dei vini che, per la loro tipologia o per la loro difficoltà di smercio, mi restano in cantina svariati anni, a mio avviso il prezzo di acquisto iniziale dovrebbe essere rivalutato.”
Bere il futuro
Il ricarico elevato sarebbe dunque una sorta di premio o di compensazione per l’immobilizzo di capitali. Ma se un capitale si rivaluta, è già questo il premio: nel caso del vino, ho comprato a 8 un bene che ora vale 20. Dovrei autopremiarmi in misura ulteriore, applicando un forte ricarico sul prodotto rivalutato? Dovrei far pagare al cliente 60 euro quel vino che oggi, in base alle correnti valutazioni di mercato, ne vale 20? Non se ne capisce la ragione. Potrebbe casomai avere un senso la scelta opposta: se cioè il ristoratore decidesse di far condividere al suo cliente il vantaggio acquisito con l’acquisto anticipato del vino, offrendolo in carta ad un prezzo inferiore rispetto alla concorrenza. Se questa politica verrà fatta in modo continuativo, il cliente se ne accorgerà, e darà più fiducia. Andrà in quel locale sia per bere a miglior prezzo i già celebri e gli emergenti, sia per fare delle vere e proprie scoperte. Può diventare per un locale un fiore all’occhiello e una specie di marchio di fabbrica: si sa che lì capita spesso di bere i saranno famosi a prezzi ancora irrisori. Per l’appassionato, un motivo di interesse in più.
Svalutéscion
Ma se i ricarichi sopra le righe sono irrazionali anche nel caso di un prodotto che si è rivalutato, figuriamoci se questa rivalutazione nei fatti non è avvenuta. Effettivamente, nella realtà della ristorazione, si assiste molto più spesso alla decadenza del prodotto immagazzinato per i motivi che tutti sanno. Quei vini che, dice Dori: “Per la loro tipologia o per la loro difficoltà di smercio, mi restano in cantina svariati anni”, potrebbero non giovarsi affatto di questo prolungato stazionamento. Anche se si parla di vini importanti, è notorio che non tutti si prestano egualmente ad essere invecchiati (usiamo il termine invecchiato solo perchè è intuitivo e chiaro per tutti, ben sapendo che oggi si tende ad evitarlo per la sua valenza negativa). A parte quei vini bianchi che si apprezzano soprattutto per la loro fresca fragranza, anche molti rossi non hanno vita lunga, e persino i vini storici da riserva (Baroli, Brunelli e simili) sono condizionati in questo aspetto dalle caratteristiche dell’annata. E poi c’è il grande, grandissimo problema, troppo spesso sottovalutato, delle modalità di conservazione. A volte basta poco per accorciare la vita del vino, invece di allungarla.
Bottiglie elette
in cantine perfette
Qualsiasi discorso sulla rivalutazione del vino è vincolato all’esistenza nel ristorante di proprie cantine perfettamente idonee e attrezzate, strutture davvero ottimali, tanto da per poter competere con le cantine del produttore: altrimenti il nostro vino forse sarà anche buono, ma molto meno di quello rimasto fermo là dov’è nato. Certo, sempre meglio averlo invecchiato in casa, sotto il proprio diretto controllo, anche se in condizioni appena appena sufficienti, piuttosto che averlo acquistato già invecchiato da fonte incerta: il rischio è troppo grande. Ma si rischia tanto anche se i propri ambienti di stoccaggio non rasentano la perfezione. Gli ambienti veramente ad hoc, va detto, costituiscono una dotazione piuttosto rara. Tra l’altro, per consentire vere e proprie forme di investimento sul vino, oltre ad avere i giusti requisiti climatici dovranno possedere anche una superficie adeguata. Solo cantine così sono in grado di garantire al cliente che il vino lì conservato non c’è rimasto a causa di un errore di programmazione (che l’incauto ristoratore ora vuol far pagare all’innocente clientela), ma per una scelta consapevole e lungimirante.
Senza il pedigree
Ma il cliente, dal canto suo, come può accertarsene? Gli potranno esser fatte visitare le cantine del ristorante, ancor prima che si sieda al tavolo, e gli sarà magari concesso di prelevare lui stesso la sua bottiglia (come fa qualcuno). Tutto molto suggestivo, ma anche molto aleatorio. Basta una fuggevole visita, per rendersi conto dell’adeguatezza o meno degli ambienti di conservazione? E poi c’è un altro problema. Il vino che compare sul tavolo del ristorante non è accompagnato da un pedigree, e il cliente non ha alcuno strumento per sapere quali vie ha percorso prima di arrivargli dinanzi. E solo se è un esperto intenditore, capirà all’atto dell’assaggio se il prodotto è stato o meno conservato in maniera ottimale. Quando al ristorante si ordina un vino con diversi anni sulle spalle, si presentano spesso casi limite: bottiglie che si trovano sul crinale che separa la maturità dalla decrepitezza. E’ proprio in questi casi che sarebbe importante poter determinare l’influenza apportata al vino dal luogo in cui è stato conservato: innanzitutto, è stata positiva o negativa? Quella stessa bottiglia, se conservata presso il produttore, oggi presenterebbe più o meno lo stesso contenuto?
Il Barolo è partito
Come si diceva prima, solo i grandi esperti, e in particolare i profondi conoscitori di quel vino, saranno in grado di dare un responso attendibile. E di riflesso di valutare se l’eventuale alto ricarico applicato dal ristoratore oltre ad essere ingiustificato, è una vera beffa per il cliente, che beve male e per questo bere male paga pure un salato sovrappiù. Ecco: a mio avviso, quando per avere una visione chiara della qualità del prodotto, e del rapporto qualità/prezzo, ci vogliono i superesperti, allora c’è qualcosa che non va nel meccanismo. Significa che l’utente normale è del tutto indifeso. E non basta invocare la serietà della Casa, che si fa mallevadrice e garante della correttezza di quanto avviene tra le sue mura. Certo, si obietterà che questo vale sempre e non solo per il vino: il cliente impreparato giocoforza deve mettersi nelle mani di chi gli fornisce una merce o un servizio. Ma è vero anche che la legge prevede con una certa precisione i casi di inadempienza contrattuale e stabilisce per il consumatore tutta una serie di tutele. Ma chi decide se quel Barolo a 150 euro è già partito? Se ci stanno servendo una pocciacchera al posto di un nettare sublime?
Cornuto e mazziato
Potrà dirlo, con cognizione di causa, solo chi ha le conoscenze tecniche, e così si torna al punto di partenza. Siamo d’accordo che l’eventuale difetto qui non è paragonabile alla disfunzione di un televisore o di una lavastoviglie: è un discorso molto più ambiguo e sfumato. Ma vi sembra giusto che, giocando su questa ambiguità, qualcuno ne esca cornuto e mazziato, come dicono a Napoli? Difficile dire quali siano i rimedi. Io ho delle mie idee, delle mie proposte, che forse non faranno contenti molti ristoratori, perchè implicherebbero per loro degli impegni supplementari. Per esempio ottenere una speciale autorizzazione di legge per poter fregiare la propria cantina della qualifica di “cantina da invecchiamento”. In più dovrebbero allegare al vino invecchiato un attestato di filiera, che ne ricostruisca il percorso dalla cantina del produttore al tavolo del cliente, con tanto di vidimazioni ad ogni passaggio di mano. Intendiamoci: non si tratterebbe di misure obbligatorie. Ma se il ristorante sceglie di bypassarle, il cliente non esperto almeno sa che potrebbe doversi accollare i rischi legati ad eventuali problematiche relative ai vini invecchiati. Un fatto di elementare trasparenza, reso necessario dalle cifre in gioco (spesso si tratta di centinaia di euro). Sarebbe già un piccolo passo in avanti.
Cadaveri eccellenti
Ebbene: finchè il cliente non avrà queste garanzie, trovo che certi ricarichi sui vini invecchiati siano una vera vergogna. E’ capitato a me personalmente uno spiacevole episodio. Mi trovavo con dei colleghi in un locale abbastanza conosciuto (che per carità di patria non nomino), e il gestore ha cominciato a vantarsi di avere quella certa annata di un mitico supertuscan che in giro non si trova quasi più. E ha voluto aprircene una bottiglia. Alla prova dei fatti, ciò che gelosamente conservava in cantina era in realtà un cadaverino, un vino che per il pessimo stato di conservazione aveva perduto gran parte dei suoi pregi, e il prezzo elevatissimo in carta non solo non era giustificato, ma se quella bottiglia fosse stata fatta pagare (cosa che nel nostro caso non è avvenuta, grazie all’universale riconoscimento del difetto), il cliente avrebbe subìto un grave danno, consapevole o inconsapevole che fosse. Tra i danneggiati, quando si verificano situazioni del genere, c’è naturalmente anche il produttore, che non ci guadagna certo in immagine (un cliente poco informato può credere che quel vino sia davvero così…). La colpa dell’accaduto fu fatta rimbalzare su terzi, su quell’amico traditore che aveva venduto il vino al ristorante garantendone l’integrità…. Ma la legge punisce anche l’incauto acquisto. Questo episodio mi torna utile per affrontare il tema dei ricarichi sulle etichette rare e non più disponibili sul mercato, tema su cui regna sovrana la confusione.
Il prezzo del senza prezzo
Prima osservavo che occorre sempre partire dal valore di mercato di un vino, per stabilire il ricarico. Ciò presuppone che il vino sia attualmente in commercio.
Se non lo è più, se si tratta di vecchie annate di vini prestigiosi ormai diventate irreperibili, si scivola nell’ambito del collezionismo, con tutto ciò che ne consegue. Attenzione però: è un luogo comune, almeno in parte da sfatare, quello secondo cui le bottiglie da collezione non hanno prezzo. Pure per questa categoria esiste un mercato di riferimento, anche se con caratteristiche molto particolari. Sono abbastanza frequenti le vendite all’asta, in cui bene o male un’indicazione di valore viene data, e nella stessa oscillazione tra il prezzo iniziale (la base d’asta) e quello finale d’acquisto, si può leggere il processo di valorizzazione in atto. Per quanto concerne il ricarico, dovrà essere calcolato a partire dal valore corrente, come per qualsiasi altro vino. E secondo me non è accettabile che sia di molto superiore rispetto ai ricarichi che quell’esercizio applica sui vini della medesima tipologia, solo in virtù della difficile reperibilità, in quanto questo elemento è già ricompreso nel prezzo base, che è già di per sè assai superiore a quello di altri prodotti analoghi. Dunque neppure per la bottiglia rara si potrà indicare in carta un prezzo a casaccio, saltato fuori chissà come, oppure buttato lì con la logica del “o la va o la spacca”, nella speranza che capiti il ricco collezionista a cui manca proprio quel pezzo, o il petroliere russo attratto irresistibilmente da tutto ciò che è stracaro. Una condotta, questa, come minimo poco professionale.
A ciascuno il suo
Dunque le logiche che presiedono alla definizione del ricarico variano molto, in base alla tipologia del locale e alla fascia di prezzo, anche se poi alla fine qualche punto in comune lo si trova.
Volendo fare una sintesi estrema potremmo dire questo: i locali di fascia media e medio-bassa cercano nel vino una fonte di guadagno sicuro, il più alto possibile, ma sono frenati dalla necessità (oggi sentita più che mai) di tenere il conto sotto controllo, e cercano di risolvere il dilemma con la ricerca di prodotti dal prezzo base sempre più basso; i locali di fascia più alta, i top class, che avrebbero motivazioni non piccole per applicare ricarichi consistenti, nei fatti non possono farlo più di tanto, in parte per ragioni analoghe (il vino rischia di essere SEMPRE, e non solo occasionalmente, la voce principale del conto, superando di gran lunga il cibo, e questo non va), in parte per ragioni diverse (l’immagine elevata di un locale impone serietà e coerenza nell’affrontare anche questo delicato aspetto, e i ricarichi eccessivi non sono un buon biglietto da visita).
La paura
sola al comando
Questa sommaria analisi ci porta a concludere che il vino nel ristorante oggi finisce col giocare un ruolo persino superiore a quello che dovrebbe naturalmente spettargli, essendo diventato una sorta di ago della bilancia su cui poggiano molti instabili equilibri. Il vino rappresenta e sintetizza sempre di più i paradossi e le contraddizioni insiti nella fase attuale: può far crescere un locale ma può anche far saltare i bilanci; è un richiamo per la clientela ma è anche molto sottile il confine oltre cui diventa un deterrente; è un simbolo di qualità ma per poterselo permettere deve costare poco…
Insomma, un oggetto affascinante ma da maneggiare con grandissima cautela. Quando le cose vanno male, quando i conti sono in rosso, la paura prende il posto di comando e intinge tutto nel suo brodo oscuro. E oggi anche il vino più che un’opportunità appare come un rischio. Si comincia vagamente a intuire perchè un numero crescente di ristoranti dilaziona in modo abnorme il pagamento delle forniture di cantina, fino ad arrivare a veri e propri casi di insolvenza.
Passate
da Canossa…
E’ un fatto psicologico, ma i comportamenti economici, com’è noto, sono spesso condizionati da elementi psicologici. Questa cosa ambigua che abbiamo tra le mani (il vino), che potrebbe aiutarci o danneggiarci, si tende a non farla nostra finchè non si è sicuri che il segno più prevalga sul segno meno. Vorremmo poterci garantire la reversibilità della scelta, anche se ci rendiamo conto che, così facendo, si danneggia sicuramente un altro (il produttore di vino). Allora urge attivare un meccanismo autogiustificativo, e l’excusatio arriva puntuale. A un certo punto, nella ristorazione, si è percepita la crisi del vino come una resa totale dei produttori, come uno scusateci, abbiamo scherzato. E non avendo mai digerito l’arroganza di certe aziende, nei loro giorni migliori, oggi a certuni sembra quasi giusta l’applicazione di un contrappasso. Memori del penoso tira e molla per ottenere due bottiglie in più di quel Tre Bicchieri e dei piccoli ricatti – passateci il termine – subìti sistematicamente (ti dò un cartone di quello, ma solo se mi prendi 12 cartoni di quell’altro), alcuni ristoratori segretamente godono del declino di una certa fetta di produzione, e si sentono meno in colpa quando dimenticano di pagare le forniture…