Campi Flegrei, Vesuvio, Penisola Sorrentina, Costiera Amalfitana si sono rivelati dei veri laboratori ampelografici a cielo aperto. Una biodiversità sbalorditiva di vitigni autoctoni, che anche in questa seconda parte dedicata alla Campania, ha offerto innumerevoli spunti di riflessione.
Il tutto grazie alla passione per la loro terra di tanti viticoltori.
Dopo aver parlato la volta scorsa dei vitigni più rari della parte settentrionale della regione, ci concentreremo qui sul napoletano, dai Campi Flegrei all’aerale Vesuviano, e sul Salernitano, soffermandoci in particolare sulla Costiera Amalfitana, vera “fucina” di antiche varietà misconosciute e giustamente rilanciate. Una regione, la Campania, che ci ha regalato nel suo complesso realmente grandi sorprese.
Dalla Costiera, una bacca esigente ma gratificante
La Biancazita d’Amalfi, considerata un sinonimo della Ginestra, è attualmente diffusa a macchia di leopardo su tutta la Costiera Amalfitana, in particolare nei comuni salernitani di Scala, Ravello, Amalfi, Maiori, Minori, ma anche a Furore, Tramonti, Corbara, Positano.
Vitigno vigoroso e fertile, richiede potature drastiche. Poco tollerante alle crittogame, è bacca difficile da coltivare, soprattutto in regime bio. A piena maturazione, offre un livello zuccherino equilibrato e un’acidità abbastanza elevata.
Se ne ottiene un vino dai tratti floreali che, in evoluzione, offre note di idrocarburi. Rientra come vitigno complementari nel Costa d’Amalfi Doc Bianco.
Tra i suoi principali interpreti, meritano una citazione Gaetano e Luigi Reale, dell’omonima cantina di Tramonti.
Il loro Costa d’Amalfi Doc Tramonti Bianco Aliseo proviene da vecchie viti, esposte a nord-ovest, su terreni argilloso vulcanici, allevate con la locale forma a pergola; se ne ricava un blend con prevalenza di Biancazita, quindi Biancolella e Pepella.
Dopo un vinificazione in acciaio termoregolato, 4 mesi sur lies e 3 mesi in vetro, l’Aliseo viene commercializzato in tutta la sua fragranza.
Una chicca vesuviana, oggi interpretata al meglio
Varietà a bacca bianca riconosciuta di recente come vitigno vesuviano a sé stante (in passato la si confondeva con il Coda di Volpe), il Caprettone presenta un grappolo serrato, con acini dalla spessa buccia. Per non disperderne il patrimonio acidico, lo si vendemmia precocemente.
Nella Doc Lacryma Christi del Vesuvio Bianco deve essere presente per un minimo del 35%. Casa Setaro di Trecase (Napoli) è stata tra le prime realtà a riportare in auge questa cultivar, ed è l’unica che ne produce una versione metodo classico.
Racconta Massimo Setaro: “Il vecchio disciplinare del Lacryma Christi prevedeva un blend di Caprettone e Falanghina; una mescolanza senza senso, trattandosi di vitigni non complementari fra loro; oltre a consentire rese produttive enormi”. Oggi tutto è cambiato.
In particolare il Lacryma Christi del Vesuvio Doc Bianco Munazei è frutto di Caprettone in purezza da vigne a piede franco vecchie sino a 150 anni, ubicate su suoli ricchi di minerali, sino a 400 m slm, nel Parco Nazionale del Vesuvio. “Abbiamo abbassato le rese e raccogliamo nella prima metà di settembre, quando il rapporto zuccheri/acidità è ottimale”.
Per un vino fruttato e sapido, dai ricordi di fiori bianchi e agrumi, con rimandi balsamici, fresco e persistente.
Da uva da tavola a vesuviano nettare
La Catalanesca, di antiche origini iberiche, si diffuse nel XIV secolo nel comprensorio vesuviano, trovando lì il suo habitat ottimale.
Fino al 2005 è stata classificata come uva da tavola, quindi registrata anche come cultivar da vino.
Cantine Olivella di Andrea Cozzolino e i soci Ciro e Domenico, sita a Sant’Anastasia (Napoli) nel Parco Nazionale del Vesuvio, con il suo Catalenesca del Monte Somma Igt Katà è stata la prima – nel 2011, anno di iscrizione del vitigno nella citata Igt – a vinificare e imbottigliare questa bacca bianca.
Il progetto prende le mosse negli anni ‘90, con il ripristino di una vecchia vigna di Catalanesca e le prime artigianali sperimentazioni di vinificazione. L’obiettivo era di trasformare il “vino del contadino” in un nettare qualitativo, interessante anche commercialmente; il tutto col supporto, tra il 1995 e il 1999, dell’ente regionale SeSirca e di Luigi Moio.
A seguito degli incoraggianti risultati ottenuti, nel 2004 nasce Cantine Olivella, ritenuta la vera promotrice di questo misconosciuto vitigno.
La Catalanesca impiegata in purezza per il Katà, che matura tardivamente nella prima decade di ottobre, proviene da vigne a piede franco alle pendici del Monte Somma (300-600 m slm).
Basse rese, suoli vulcanici, e una lunga permanenza sulle fecce fini conferiscono al vino spiccata mineralità, freschezza, longevità.
Dal “caldo” Fenile, al complesso Ripoli
I vini di Marisa Cuomo invecchiano in una cantina scavata nella roccia di origine dolomitico-calcarea: un luogo affascinante, umido e fresco.
“In un territorio come Furore (Salerno), così caratteristico ed estremo, la cura dell’uva e delle viti – allevate a “pergolato” e piantate sulle pareti rocciose verticali sino a 600 m slm – diventa un lavoro del tutto manuale, a contatto con la natura”, racconta Andrea Ferraioli, consorte di Marisa. “I vitigni sono i classici del territorio: Falanghina e Biancolella per i bianchi, Piedirosso e Aglianico per i rossi”.
Ma in realtà l’azienda ha puntato negli anni anche sulla riscoperta di varietà quasi dimenticate; uno dei vini di punta di Marisa Cuomo è difatti il Costa d’Amalfi Doc Furore Bianco Fiorduva, ottenuto da un blend di Ripoli (40%), Fenile (30%) e Ginestra (30%).
Il Ripoli a infondere complessità aromatica, che da giovane si esprime con note di frutta esotica e miele, mentre negli anni si traduce in ricordi di pietra focaia; il Fenile, raccolto tardivamente, a offrire calore alcolico e calibrata acidità. Fermentato parte in acciaio e parte in barrique nuove, dove vi sosta sino a 8 mesi, il Fiorduva esprime “profumi di albicocca, fiori di ginestra, con richiami di frutta esotica, mentre in bocca si presenta morbido e denso, dai persistenti sentori di frutta candita”.
Marsigliese, da gregario del Piedirosso a solista
“Il Marsigliese – così Vincenzo Di Meo de La Sibilla di Bacoli (Napoli) – è un raro vitigno tipico dei Campi Flegrei, grazie alla sua ricchezza polifenolica un tempo usato come uva da taglio per arricchire il Piedirosso”.
Ampelograficamente il suo grappolo è assai spargolo, con acini piccoli (più buccia e vinaccioli che polpa) somiglianti a dei mirtilli. Appartiene a quel raro manipolo di vitigni definiti “tintori”, chiamati così perché forieri di un mosto colorato.
Ciò conduce a un vino dai colori intensi, profumi floreali e tannini marcati. Di Meo, desideroso di rilanciare seriamente questa cultivar, l’ha recuperata e moltiplicata, sino a creare una vigna sufficientemente estesa per trarne un vino, il Campania Igt Rosso Marsiliano.
A base di Marsigliese (60%) proveniente da un vigneto ubicato su suoli vulcanico-sabbioso, esposto a sud-ovest, allevato a cordone speronato con una densità di 7.300 ceppi/ha dalla resa inferiore ai 70 quintali di uva/ha, affina in barrique per 8 mesi e in bottiglia per 3.
Dai profumi balsamici di macchia mediterranea, erbe aromatiche, eucalipto e pepe bianco, con note di prugne, viola e liquirizia, al palato offre grande freschezza, struttura e fruttata armonia.
Dagli acini difformi sino a farsi granelli, ha trovato un suo mecenate
Di origini pressoché sconosciute, la Pepella – coltivata solo sulla Costiera Amalfitana – deve il suo nome ai problemi che la affliggono in fase di fioritura e che provocano una difformità di dimensione degli acini, cosicché lo stesso grappolo ne porterà alcuni normali e altri della grandezza di un granello di pepe. I pochi vecchi ceppi rimasti sono in genere piantati frammisti ad altre locali cultivar, quali Ginestra e Ripoli, rientrando nella Doc della Costiera.
Il suo grappolo spargolo e lo spessore delle bucce la difendono dalla botrytis, ma è piuttosto sensibile alle altre malattie, oltre a offrire basse rese: motivi che hanno indotto negli anni molti produttori ad abbandonarla.
Fra quelli che non hanno invece mai smesso di credere in questa varietà vi è Ettore Sammarco, dell’omonima cantina di Ravello (Salerno). Il suo Costa d’Amalfi Doc Bianco Terre Saracene è infatti composto per ⅓ da Pepella – vendemmiata nella prima decade di ottobre – proveniente da vari appezzamenti in Ravello, con vigne insistenti su suoli vulcanici, allevate a spalliera e a pergola amalfitana. Il risultato è un nettare di colore paglierino-dorato, con naso intenso di fiori di campo, drupe a polpa canuta e mandorle tostate; il gusto è morbido, ma al contempo fresco e sapido.
Da una “visione” di Mastroberardino, il Progetto Pompei
Di antiche origini, il Piedirosso deve il suo nome alla rutilante colorazione che prendono rachide e pedicello al momento della maturazione (piuttosto precoce).
In purezza, rispetto all’Aglianico dà vini meno concentrati, più morbidi e delicati, dai tannini meno serrati e duri, con acidità più contenuta. Il Progetto Pompei, voluto dall’azienda Mastroberardino di Atripalda (Avellino) da un’idea nata a fine anni ‘80, si concretizza in un programma di ricerca finalizzato a una indagine sui metodi e sulle tecniche di viticoltura e vinificazione nell’antica Pompei, e alla riproduzione di alcune delle fasi salienti di tale sistema sul piano sperimentale. Un’iniziativa di interesse storico ma pure viticolo. “Vino prodotto da vigneti pompeiani – sottolinea patron Piero Mastroberardino – il Villa dei Misteri è un messaggero della nostra antica cultura e tradizione. Nel settembre 1999, dopo tre anni di sperimentazioni, la sua prima vendemmia, decidendo di puntare su Piedirosso (85%) e Sciascinoso. Nel corso del 2007 l’area del Progetto viene ampliata e si opta per l’alberello, perfetto per l’Aglianico; pertanto dal 2011 nel blend viene inserito quest’ultimo, giungendo al seguente uvaggio: Pedirosso (40%), Aglianico (40%), Sciascinoso (20%)”. L’attuale Pompeiano Igt Rosso Villa dei Misteri 2012 offre un profilo olfattivo fine e complesso, dai ricordi di prugne, more, marasche, tabacco, liquirizia, vaniglia, erbe officinali, pepe, chiodi di garofano; il palato è denso, morbido, sapido, persistente, ricco di freschezza e di eccezionale armonia.
Tra pregi e difetti, in rosa dà il suo meglio
Lo Sciascinoso si esalta nei Campi Flegrei, Vesuvio, Penisola Sorrentina e Costiera Amalfitana, rientrando come vitigno complementare nelle Doc associate ai suddetti aerali. In Costiera lo si trova frammisto ad altre uve, impiegato in passato per la sue rese produttive e per la sua grande resa in vino, data la notevole dimensione degli acini; di contro, maturando tardi, è sensibile a peronospora e botrytis, data anche la compattezza del grappolo; una delicatezza che ha condotto molti produttori ad abbandonarlo, pur possedendo positive doti: calibrata dotazione zuccherina, buona acidità, aromi spiccati e complessi. Vitigno restio a rilasciare i propri antociani, ben si presta alla produzione di vini rosati; aspetto colto dall’azienda Giuseppe Apicella in quel di Tramonti. “Abbiamo pensato di sfruttare i tratti positivi dello Sciascinoso, producendo un Costa d’Amalfi Doc Tramonti Rosato”, così patron Prisco Apicella.
“Si tratta di un blend paritario di Sciascinoso e Piedirosso, da vigne esposte a est tra i 300 e i 400 m slm, su terreni limosi e ricchi di detriti, allevate a raggiera e a pergola; dopo la vendemmia di metà ottobre, previa criomacerazione si passa a una vinificazione in rosa. Ne scaturisce un nettare dagli effluvi floreali (viola, primule) e fruttati (lamponi, melagrana), dal sorso vellutato, morbido, fresco e persistente.
Da vigne centenarie, una rarità saggiamente rilanciata
Il Tintore di Tramonti è oggi presente quasi solo a Tramonti (Costiera Amalfitana); da antiche vigne a piede franco, allevate a pergola o a raggiera, concorre nella produzione del Costa d’Amalfi Doc Rosso Tramonti.
Il suo piccolo grappolo è così spargolo da renderlo quasi immune alla botrytis; ha inoltre acini con una polpa ricca di antociani (vitigno “tintore”). Tenuta San Francesco, fondata nel 2004 a Tramonti, ne è tra le principali interpreti.
Così Gaetano Bove, tra i creatori della cooperativa: “Il nostro Campania Igt Tintore di Tramonti Prephilloxera E’ Iss nasce dalla convinzione che tale antica varietà – alcuni ceppi a piede franco hanno 400-500 anni – sia tra quelle di maggior pregio della Campania. Pertanto nel 2007 siamo usciti dalla Doc Costa d’Amalfi optando per l’Igt, che permette una sua vinificazione in purezza”.
Da vigne ultracentenarie a piede franco, la cui resa è inferiore ai 50 q/ha, a 300-600 m slm su terreni calcareo-dolomitico-piroclastici, allevate a pergola su terrazzamenti da brivido, le uve vengono vendemmiate a inizio novembre.
L’affinamento avviene in botti da 25 hl per 2 anni, quindi mesi in vetro.
Il vino è violaceo, con profumi di more, sottobosco, cenere, grafite; al sorso è pieno, acido, sapido, persistente; un nettare bisognoso di anni di bottiglia per dare il meglio di sé.
Sono le uve “minori” che esaltano il Gragnano
In area Sorrentina Gilda e Salvatore Martusciello, titolari dell’omonima azienda di Quarto (Napoli), si dedicano con scrupolo alla riscoperta di numerosi antichi autoctoni del comprensorio, contribuendo alla straordinaria biodiversità dello stesso.
Racconta Salvatore: “Nella produzione del Penisola Sorrentina Doc Gragnano concorrono per il 60% Piedirosso, Sciascinoso e Aglianico e per il restante 40% alcuni vitigni che all’epoca del riconoscimento della denominazione (1994) non erano ancora stati censiti e classificati, e che dunque non potevano essere esplicitati nel disciplinare se non sotto la voce ‘altri’”.
Successivamente la Regione Campania avviò degli studi ampelografici per identificare tali “altri vitigni”, giungendo al riconoscimento di varie cultivar, quali Suppezza, Castagnara, Olivella e Uva Sabato, e per alcune di esse fu avviato il lavoro di classificazione ampelografica.
“Da qui l’idea – riprende Martusciello – di voler chiamare Ottouve il nostro Gragnano, ciò per sottolineare che il quid in più di questo vino è rappresentato proprio da queste uve ‘minori’ a suo tempo non dichiarabili”.
In particolare queste bacche infondono una complessità aromatica, freschezza e armonia che Piedirsso e Aglianico in purezza faticano a dare.
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