Sono loro gli artefici del successo di Maialino, ristorante “romano” trendy a New York
Nato a St. Louis, Missouri, Daniel (“Danny”) Meyer è cresciuto fra la Francia (Parigi e Bordeaux), e l’Italia (Roma) perché suo padre era proprietario di un’agenzia di viaggi. Durante l’università Danny ha lavorato per suo padre come guida turistica a Roma e poi, dopo la laurea, è tornato per fare un master in scienze politiche, anche se passava più tempo nelle trattorie che all’università.
La prima esperienza professionale di Meyer nella ristorazione risale al 1984 come assistant manager a “Pesca”, un ristorante italiano a New York.
Dopo un anno, all’età di 27 anni, ha iniziato la sua carriera come ristoratore aprendo l’Union Square Café, tuttora sulla cresta dell’onda. Come CEO (dell’Union Square Hospitality Group), oggi è il proprietario di dieci ristoranti, sei dei quali si trovano in questo quartiere pittoresco di Manhattan. Suo ristorante più recente, una trattoria romana di quartiere e il suo unico ristorante di matrice italiana, “Maialino”, inaugurato nel 2009 presso Gramercy Park Hotel (2 Lexington Avenue vicino a 21st Street, tel. 212-777-2410 per prenotazioni; wwww.maialinonyc.com) ed ha subito riscontrato un grande successo.
Meyer ha un sesto senso per scegliere l’ubicazione giusta per i suoi locali ma anche per scegliere i suoi chef, quasi tutti mega-star come Michael Romano, Tom Colicchio, Marco Canora, Daniel Humm, Floyd Cardoz, e Nick Anderer, l’executive chef di “Maialino”. Fatalmente proprio durante il lavoro progettuale di “Maialino”, Meyer e Anderer hanno scoperto di condividere tre grandi amori: Roma, la storia dell’arte che ambedue hanno studiato a Roma, e la cucina italiana. Nato a South Bend, Indiana, nel 1978 ma cresciuto a New York dove suo padre di origine tedesca insegna la cultura giapponese alla Columbia University, Anderer ha un pedigrée culinario stellare avendo lavorato con Colicchio, Michael Anthony, Mario Batali, e Larry Forgione.
Durante il suo viaggio più recente a New York, dove anche lei è nata e cresciuta, Lucy Gordan, la nostra inviata speciale, ha intervistato in esclusiva per La Madia Anderer, che l’ha invitata a pranzo. Il suo menù degustazione includeva: carciofini fritti, trippa alla Trasteverina, tonnarelli cacio e pepe, bombolotti all’Amatriciana, malfatti al “Maialino”, pollo alla diavola, e bombolini alla crema, accompagnati da Kerner di Abbazia di Novacella 2009 (Alto Adige)e Podere Rocche Manzoni Nebbiolo “Quatr Nas” 1999 (Piemonte).
Ho letto su Internet che lei ha imparato a cucinare da sua madre. Che cosa ha imparato e quali sono le sue specialità?
Da mia madre ho imparato l’apprezzamento per il cibo e la gioia di creare qualcosa con le proprie mani, secondo un’artigianalità che io ritengo estremamente dignitosa per l’uomo. Questo tipo di dignità fa parte di me da quando ero molto piccolo. Da mia madre ho anche imparato l’amore per il lavoro, perché è attraverso l’amore che si preparano buoni pasti. Lei ha seguito corsi di cucina italiana: la sua insegnante era di Bologna. Frequentavo la terza elementare e il mio migliore amico si chiamava Michele. Sua madre dava appunto lezioni di cucina italiana. È da quell’esperienza che io e mia madre siamo rimasti stregati dalla cucina italiana.
I suoi mentori sono Larry Forgione, Mario Batali, Tom Colicchio e Mike Anthony. Che cosa ha imparato da ciascuno di loro?
I miei quattro mentori avevano quattro diversi stili culinari. Larry Forgione era il primo top chef con cui ho collaborato a New York. Lui era famoso per aver creato “The American Food Movement” e per il suo ristorante “The American Place”. Per me lavorare con lui è stata un’esperienza cruciale per tre motivi: 1) era il mio primo vero lavoro fisso; 2) con lui ho imparato le basi fondamentali per una carriera da chef; e 3) ho imparato il vero significato di questa professione. Larry è un italo-americano e le sue ricette riflettono in qualche modo le sue origini, ma il suo scopo è quello di mettere in evidenza e celebrare i prodotti delle fattorie e dei mercati locali. Lo chiamerei “chef-contadino”. Per merito suo “The American Food Movement” conta oggi molti seguaci.
Ho lavorato con Mario Batali per diversi anni e ho soprattutto cucinato la pasta. Da lui ho imparato quasi tutto quello che so della cucina regionale italiana dalla A alla Z. Lui non favorisce una regione più di un’altra, anche se la sua cucina ha subìto molto l’influenza dell’Emilia-Romagna perché Batali ha lavorato lì. Il suo menù da “Babbo” includeva piatti provenienti da tutte le regioni d’Italia. La cosa più bella della mia esperienza da “Babbo” era lavorare in un nuovo ristorante con tanti giovani colleghi ambiziosi come me.
Antonio Colicchio è uno chef americano molto fiero della sua “new cuisine” americana, ma in cucina segue le tecniche e l’organizzazione francese, il sistema di squadra e della gavetta. Ho lavorato sei anni al Gramercy Tavern, un altro ristorante di Danny Meyer, tre anni con Tom Colicchio da cui ho imparato il rigore e la disciplina di squadra e tre con Mike Anthony. Lui mi ha insegnato la necessità di lasciare libero ogni ingrediente e di non cambiarlo. È geniale come lui sceglie i migliori prodotti sul mercato e li trasforma in un piatto squisito facendo il minimo possibile. Tira fuori il gusto dalle varie verdure in un modo sublime tutto suo. Non conosco nessun altro chef che ha questo talento.
Le qualità essenziali per essere top chef?
Certamente ti servono una combinazione di resistenza e autodisciplina incrollabile per arrivare al successo personale. Tutti i top chef devono per forza possedere una testardaggine quasi maniacale. Questo è necessario oggi perché dobbiamo sopportare tante critiche e tanta competizione soprattutto qui a New York. Se prendiamo tutto troppo sul serio, se ci facciamo convincere da giudizi e seguiamo i consigli di chiunque, dei giornalisti, dei colleghi, o delle guide, perdiamo la bussola, la nostra meta finale. I top chef più bravi qui a New York sono coloro che sono riusciti a rimanere fedeli al proprio stile, che non si sono fatti influenzare e che non deviano dalla loro strada. Come tutti gli artisti, i pittori, gli scrittori o i musicisti, noi chef dobbiamo fare buon viso alle critiche e continuare la nostra ricerca personale.
La sua unica esperienza professionale in Italia si è svolta a Milano. Perché ha scelto Milano e che cosa ha imparato lì?
Vorrei essere del tutto onesto. Volevo tornare a Roma, dove, come sa, ho studiato storia dell’arte come Danny Meyer. Lui Continuava a ripetermi: “Devo trovare un lavoro come cuoco in un ristorante a Roma”. Io perciò sono tornato, ma non ho trovato lavoro: è un ambiente in cui è molto difficile penetrare.
Per fortuna, grazie ad un amico, si è presentata un’occasione a Milano in un ristorante appena aperto, e specializzato in piatti tipici milanesi. Si chiamava “San Giorgio e il Drago.” Era un’opportunità frizzante per me sia perché era un ristorante appena aperto sia perché sono pochi i ristoranti a Milano specializzati in piatti locali. La specialità della casa era “riso al salto”, una specie di crepe fatta con del risotto rimasto dal giorno prima. Per me andare a Milano è stata una sorta di autosfida. “Bene,” mi sono detto, “non stai a Roma, ma è un’opportunità. Perché non sfidarsi, perché non lavorare in una regione d’Italia che non conosci?”
L’aspetto del Suo lavoro che ama di più?
In questo momento, la piena libertà di creare i miei piatti senza distrazioni e il lavoro di squadra. Infatti il mio non è un lavoro da solitario, da isolato, ma consiste in uno scambio d’idee tutti giorni con i miei sous-chef e altri collaboratori. A me piace particolarmente questo scambio. Rende proficua la concentrazione e sopportabile la fatica inevitabile.
Di meno?
L’orario così lungo. Credo che sia un lamento comune, diciamo universale, che ha già sentito tante volte da altri top chef. Poi qui serviamo tre pasti al giorno! Mi piacerebbe passare più tempo con mia moglie Wendy, anche con il mio cane. Credo che sia importante, per noi top chef, staccarsi ogni tanto dai fornelli e capire che non è necessario, anzi è controproducente, stare in cucina 24 ore al giorno.
Come definirebbe la Sua cucina?
Rustica, spirituale, gustosa, corposa, semplice ma aggressiva, casalinga. Lasciando libero e naturale ogni ingrediente: non cerco di mascherarlo, di cambiare il suo gusto.
Mi spiega l’origine del nome “Maialino”?
È divertente. Quando Danny lavorava a Roma per l’agenzia del padre, gli impiegati lo chiamavano con il diminutivo “Meyerlino” che significava “Meyer piccolo” che poi hanno trasformato in “Maialino” a causa della golosità di Danny.
Mi racconti un po’ di Danny Meyer. Che tipo è?
È fantastico vedere come riesce a far sentire tutto il personale in tutti i suoi diversi ristoranti essenziale, importante. Crea un senso di famiglia e di squadra inducendo così tutto lo staff a impegnarsi al massimo. È lui che mi ha insegnato come crearmi una squadra perfetta. In più, il fatto che è talmente conosciuto e rispettato nel mondo della ristorazione, che i suoi locali sono sempre pieni di ospiti, mi lascia la possibilità di pensare soltanto a creare nuovi piatti e a cucinare.
Il maialino è la specialità del ristorante?
Diciamo che molte persone vengono qua per mangiare il maialino, ma offriamo un menù con numerose scelte come in qualsiasi trattoria. Tanta gente viene per fare uno spuntino: un piatto di pasta accompagnato da un bicchiere di vino.
Per quanto riguarda la mia cucina, io preferisco utilizzare il termine “signature dish” perché non esiste un solo piatto che definisce chi sono io in cucina. Certamente il maialino è un piatto espressivo del ristorante che porta lo stesso nome, ma io credo che la scelta del nome “Il Maialino” per il suo ristorante sia più un omaggio da parte di Danny all’Italia e al fatto che sia cresciuto almeno in parte in Italia. Detto questo, il maialino servito qui è un piatto magico. Io e tanti nostri ospiti amiamo mangiarlo, infatti si esaurisce quasi ogni giorno. Comunque sul menù si trovano molti altri piatti altrettanto apprezzati: bucatini all’amatriciana, spaghetti alla carbonara, tonnarelli al cacio e pepe. Molti nostri clienti si complimentano con noi per il nostro raviolo all’uovo.
Anche la nostra piccola colazione ha riscontrato molto successo. È vero che gli italiani non hanno l’abitudine di fare una ricca prima colazione, ma i newyorkesi sì. Per noi chef è un gran divertimento inventare i nostri menù per la prima colazione, che sono di solito a base di uova. Per esempio, le nostre uova al forno all’Amatriciana o le uova cacio e pepe (il mio piatto preferito), le uova strapazzate leggermente con del pecorino grattugiato e pepe nero. Io adoro le uova. Adoro i tonnarelli cacio pepe.
Il piatto preferito dal pubblico?
Le pappardelle al maialino.
La cucina romana vanta diversi piatti o ingredienti come le frattaglie, il guanciale, i carciofi locali, per segnalarne soltanto alcuni, che non si trovano negli Stati Uniti; come gestisce questo problema?
La sua è una buona domanda. Presumo che tutti gli chef italiani che lavorano a New York abbiano dovuto affrontare questo dilemma. Qui al “Maialino” lo gestiamo caso per caso. Per esempio, compriamo il nostro guanciale da un produttore dello Iowa che si chiama “La Quercia”. È buono come quello di Roma? Parlando onestamente no, ma va bene per dare quel gusto robusto al nostro sugo di pomodoro. Ci sono dei prodotti che non possiamo importare: il guanciale e diversi tipi d’insaccati, ma adesso ci sono diversi bravi produttori di salumi qui in America tra cui scegliere. Fra Mani di Paul Bertoli è uno di loro.
“Maialino” si trova molto vicino all’emporio “Eataly”: lei si serve anche lì?
Ci sono stato una volta soltanto. Ho provato ad andarci più volte, ma davanti all’entrata ci sono sempre delle lunghe file d’attesa perché va tanto di moda. Ciònonostante, è un’idea geniale, l’idea di abbinare la spesa con il poter degustare. Potrei passare delle giornate intere lì dentro, ma se mi chiede se vado regolarmente a fare la spesa, la risposta è no.
Va mai a Roma per fare la spesa o cercare prodotti nuovi da aggiungere al suo menù?
Certamente. Sono andato due volte da quando abbiamo aperto per scoprire nuovi piatti da inserire nel nostro menù. Direi che non riporto con me prodotti perché sono molto attento al regolamento della dogana americana, ma torno a Roma per nuove ispirazioni e per rimanere il più aggiornato e autentico possibile. Detto questo, siamo a New York, non siamo a Roma, quindi ci sono dei prodotti introvabili qui che non possiamo includere nei nostri piatti o sul nostro menù. Qualche rara volta ci permettiamo di approfittare delle libertà creativa.
Quando va a Roma, che cosa non manca mai nella sua valigia quando torna a New York?
Non manca mai una tappa da “Volpetti”, il famoso pizzicagnolo del Testaccio per comparare qualche delizia, ma viaggio con poco bagaglio. Il mio ultimo acquisto a Roma è stato un “Pope-opener”, un apriscatole, il cui manico raffigurava una statuina del santo padre.
Il 12 gennaio 2010, la famosa giornalista gastronomica Florence Fabricant ha pubblicato sul New York Times un articolo sulla nuova popolarità dei ristoranti “romani” a New York. Perché la cucina romana e non di un’altra regione dello stivale?
Non credo che la gente ami la cucina romana per le frattaglie. Se fosse così, “Maialino” non avrebbe tanto successo, anche se serviamo tanta trippa. Credo che la gente ami la cucina romana perché è conosciuta, familiare. Quasi tutti gli americani che sono venuti in Italia sono passati per Roma. Poi, adesso che siamo attraversando una crisi economica grave, la gente desidera spendere di meno per mangiare e sta cercando piatti gratificanti, rustici e passionali. Credo che l’idea di mangiare dei piatti rustici – che è la descrizione giusta per la cucina romana in quanto a base di frattaglie e di pasta con sughi robusti che ti riempiono e ti riscaldano quando fuori fa freddo – ha reso di tendenza questa cucina regionale almeno a New York.
Ci sono centinaia di ristoranti italiani, e adesso anche romani a New York; che cosa distingue Maialino dagli altri?
Noi teniamo alla tradizione, alla genuinità dei piatti in modo quasi religioso, perché ciò rispecchia la nostra filosofia. Cerchiamo di documentare ogni ingrediente e di servire ogni piatto nel modo più tradizionale possibile. Diversi chef italiani qui a New York approfittano inserendo molte libertà creative. Il risultato può essere squisito, ma non risulta cucinato come sarebbe cucinato a Roma. Poi la nostra atmosfera accogliente, la nostra cura dei dettagli, la nostra autenticità ci hanno reso diversi dagli altri e continueranno a farlo.
Per i miei lettori italiani che abitano o vanno a New York per affari o per piacere, secondo Lei quali ristoranti italiani della “Big Apple” meritano una sosta?
La carbonara da “Lupa” che, come noi, segue lealmente la tradizione. Per la ristorazione di lusso ma ottima, suggerisco “L’Artusi” nel West Village e i due locali di Michael White: “Marea” e “Alto” che sono eccezionali.
Crede nei giudizi delle guide? Sono un aiuto o creano solo stress?
I loro giudizi su “Maialino” sono stati molto generosi, quindi non mi posso lamentare. Le guide hanno una funzione: giudicare i ristoranti e i loro chef. Se lo chef non le prende troppo sul serio, credo che le guide possano fare soltanto del bene. Quando escono le recensioni, queste di solito aiutano lo chef e il ristorante, anche le recensioni negative se non troppo brutali. Per mia fortuna quasi tutte le recensioni su di noi sono state positive, ma certamente creano stress per gli chef. Sappiamo quando i critici stanno mangiando da noi, quindi bisogna rimanere i più disinvoltoi possibile. Il più grande sbaglio di uno chef, quando arriva il rappresentante di una guida, è di creare un nuovo piatto per fare colpo. Non mi faccio influenzare dalle recensioni. Se un top chef si fa turbare da una recensione, allora è arrivato il momento di cambiare carriera. È inevitabile che prima o poi qualcuno scriverà qualche cosa di negativo sulla mia cucina.
Oltre i suoi quattro mentori, quali altri chef ammira?
Tutti i miei colleghi coetanei che si stanno dando una mossa e che stanno godendo grandi successi, in particolare Greg Marchand. Ho lavorato insieme a lui al Gramercy Tavern. Lui ha aperto un piccolo bistrot di nome “Frenchie” a Parigi. Fa tutto lui senza l’aiuto di nessuno. Dovrebbero esistere più ristoranti come “Frenchie”.
Qual sono i suoi ristoranti preferiti a Roma?
Checchino dal 1887, Perilli, Felice, che si trovano tutti a Testaccio. Mi piace anche Pierluigi a Piazza Ricci non lontano da Piazza Farnese e Campo de’ Fiori. Ho passato un paio di giorni in cucina lì. Era uno dei pochi posti a Roma che mi ha accolto volentieri in cucina e dove i proprietari, Roberto e Pina, mi hanno lasciato anche rubare alcuni loro segreti culinari. Poi, ogni volta che torno a Roma mangio da Francesco accanto a Piazza Navona. Il cibo non è speciale, ma mi piace tanto l’atmosfera nostalgica. Sembra di tornare nel passato.
È un suo sogno aprire un suo ristorante in futuro? Se la risposta è sì, si troverà a New York e quale tipo di cucina promuoverà?
Certo miro ad avere un ristorante tutto mio un giorno ma non tra poco. “Maialino” ha appena un anno e adesso la mia maggiore aspirazione è farlo diventare il ristorante più buono e apprezzato possibile. Certamente covo delle grandi ambizioni per me. C’è sempre spazio per migliorarsi. Spero comunque che un giorno sarà una realtà avere un locale mio qui a New York. Sono molto ambizioso, quindi l’idea mi giova e mi dà energia la competizione spietata tra i top ristoratori newyorkesi. La competizione mi farà diventare uno chef ancora più bravo. E il mio ristorante servirà la cucina italiana.
Se non avessero fatto lo chef, Heinz Beck avrebbe voluto fare il pittore e Gualtiero Marchesi il pianista; invece Cesare Casella aveva la professione dello chef nel sangue. E Lei?
Sono troppo competitivo e troppo energetico per dirti che avrei aspirato a qualsiasi carriera artistica. Mi sarebbe piaciuto giocare in una squadra professionale di football americano, per esempio, come “wide receiver” dei New York Jets, la mia squadra preferita. No, non è vero. Mi correggo. Mi sarebbe piaciuto di più fare il surfer. Surfing è il mio passatempo preferito. Adoro fare del surfing e “body-boarding” nelle Hawaii. Ogni due anni io e mia moglie facciamo una vacanza nelle Hawaii. È la nostra meta preferita.