Per essere cuochi si richiede quella stessa qualità dall’ordine mentale che è indispensabile nell’arte e nella filosofia. (Mario Praz)
Classico, moderno, tradizionale
Non abbiamo dubbi che Gualtiero Marchesi troverebbe assolutamente congeniale la citazione che abbiamo premesso di Mario Praz, noto anglista e critico d’arte e letteratura scomparso nel 1982. Tuttavia, per chi voglia adoperarsi a fornire elementi di comprensione del suo percorso personale e professionale (vale a dire i motivi della sua “eccentricità” rispetto al panorama offerto dagli ultimi trent’anni della nostra cucina), il primo nodo da sciogliere sta forse in un malinteso semantico, relativo cioè al significato dei termini tradizionale/innovativo, classico/creativo, comunemente sentiti come coppie d’opposti, come dire: l’antico che si contrappone al moderno.
Detta diversamente, la prima difficoltà sta proprio nell’impedimento assai popolare ad accogliere o, almeno, a giustificare l’innovazione, il nuovo; e maggiormente in cucina, un campo notoriamente così ricco di connotazioni simboliche ed emozionali.
Colpa, si dirà, dei vecchi manuali scolastici sui quali abbiamo studiato; ma che tuttavia, riferendosi ai grandi protagonisti delle lettere, della scienza o dell’arte, non mancavano di ricordare che costoro: “chiudevano un secolo e ne aprivano un altro”, a significarne il valore rivoluzionario rispetto al loro tempo storico.
Sembra perlomeno curioso, allora, che da questo facile stereotipo siano in pochi ad aver ricavato la lezione che le storie, tutte le storie, altro non sono che un’antologia di rivoluzioni e rivoluzionari, e che la tradizione continua solo attraverso l’opera di chi le si oppone.
Per dirne solo una, al Manzoni, che dopo lunghe e studiose certificazioni – i noti risciacqui in Arno – da lombardo “inventa” la lingua italiana, seguono una folla di imitatori ed epigoni che passano come minori: i manzoniani, appunto.
Ora, come nella storia della letteratura, o in quelle delle scienze, della filosofia, delle arti figurative ecc, anche in quella della cucina, la tradizione non è conservazione, bensì qualcosa che si costruisce ogni giorno e dove, fra le numerose innovazioni che si producono in un determinato periodo storico, solo alcune hanno la fortuna di essere tramandate, trasmesse alla posterità.
Non è possibile qui investigare le ragioni di questa fortuna, il perché certe moderne formule cucinarie scompaiano nell’uso mentre altre invece sono accolte e vengono, per così dire, ammesse a sopravvivere al loro tempo, entrando nel patrimonio tradizionale di una cucina. Diciamo che se accade è perché quella preparazione nuova, o nuovamente formulata, viene accettata, fatta propria dalla maggior parte della popolazione o da una fascia influente di questa.
Altro concetto da chiarire è quello di moderno, attributo peculiare di tutto ciò che viene “introdotto o cominciato da poco”, e la cui natura, come lucidamente espresso in un aforisma di Oscar Wilde, è quella d’essere destinato a invecchiare e, il più delle volte, a morire.
Questa premessa teorica era necessaria per allestire uno spazio nel quale iscrivere l’azione e motivare il valore autoriale di un maestro dell’arte culinaria come Gualtiero Marchesi.
Ma chi è infine un autore di cucina? Eugenio Medagliani, un amico storico del Nostro e con il quale Marchesi ha condiviso molte ambiziose avventure e progetti, una volta si è divertito a classificare gli operatori ai fornelli in: cuochi, quelli con studi professionali alle spalle; mezzi cuochi, i dilettanti di talento, appassionati; cucinieri, i mestieranti da trattoria e, in ultimo, i bruciapadelle.
Ora, sempre che non ci sia da aggiungere in fondo alla lista anche i bruciamanici, dove si colloca un autore culinario?
Autore, stando all’etimo, è colui che nell’esercizio della propria attività, arte o mestiere, dà origine, genera, promuove, fa avanzare, fa crescere. Qualità, evidentemente, che non tutti possiedono.
Alla luce di queste considerazioni, il percorso di Gualtiero Marchesi potremmo descriverlo come quello di un autore originale che, affascinato dal classico, se ne appropria per farne uno strumento di reinvenzione attraverso l’esercizio di una creatività, uno stile e di un gusto artistico assolutamente personale.
Che ci fossero stretti rapporti fra arte e cucina era chiaro da tempo. A lungo si è discusso se l’attività del cuoco fosse da considerarsi una forma d’arte o almeno di alto artigianato artistico. Nei primi del Novecento i nostri cucinieri usavano chiamarsi artisti culinari e Alberto Cougnet, grande erudito e studioso di gastronomia, non aveva esitazioni nello scrivere: La Culinaria è un’arte estetica, il cuoco è un artista.
Il Classico è neuf
Lasciando alle note biografiche il racconto della fascinazione subita da fanciullo nelle cucine dell’albergo di famiglia, per l’abilità dei cuochi o di uno zio formato alla scuola della grande cucina, per l’adolescente Marchesi la vera folgorazione fu il suo breve soggiorno al grande Hotel Kulm di St. Moritz.
A cominciare da questa prima esperienza s’avvia in lui la voglia di quella raffinatezza, fatta di precisione, rigore ed economia elegante di gesti, espressione identitaria di un’organizzazione della cucina e della sala conformata e messa in opera da Escoffier e da Ritz.
Tuttavia della Grande Cuisine Marchesi scopre presto di non amare il fasto, l’opulenza delle salse, la laboriosità delle preparazioni e quella filosofia che fonda l’abilità del cuoco nel saper correggere e perfezionare gli alimenti che la natura offre “imperfetti”. Al contrario, il suo gusto lo inclina piuttosto ad abbracciarne un’altra, quella di un Karl Friedrich von Rumohr (1822), o ancora di un Curnonsky, che predica il rispetto della materia prima, dalla quale il cuoco dovrà essere attento a ricavare “ciò che meglio si addice al suo carattere naturale”.
Quello che lo fa decidere definitivamente sulla direzione da dare alle sue ambizioni, dopo le delusioni delle prime esperienze in due grandi ristoranti francesi, sono i sette mesi passati nel 1966 a Roanne nel ristorante dei fratelli Troisgros, che proprio allora arrivavano al traguardo delle tre stelle Michelin.
In quegli anni, il ristorante dei Troisgros è la fucina di un movimento di rivendicazione della libertà creativa del cuoco, finalmente emancipato dal rigore normativo e prescrittivo dei grandi codificatori della cucina francese da Dubois ad Escoffier; qui si pratica una nuova maniera di stare ai fornelli: attenzione alle temperature, cotture separate e cotture veloci, succhi e non salse, uso più attento e discreto dei grassi, prodotti di qualità legati al mercato e alla stagione.
In sala nasce il piatto grande – prima di 32 e poi di 30 centimetri – e il servizio è sfrondato dai barocchismi ancora vivi all’epoca, mentre, col destinare al servizio il piatto montato in cucina, lo chef segue responsabilmente la sua creazione fino in sala.
Qualche anno ancora, e nel 1972 due giovani gastronomi, Henri Gault e Christian Millau, battezzano tutto questo: nouvelle cuisine.
Per Marchesi è una rivelazione, che ben si accorda col suo naturale bisogno di semplicità e rigore. Tornato a Milano, dopo qualche anno di vagabondaggio lavorativo e mille progetti vissuti insieme all’amico Medagliani – in quel periodo, dirà, volevo uscire dalla trattoria per fare il grande ristorante – , la cucina che aveva in animo di realizzare trova finalmente il suo “dove” a Milano in via Bonvesin de la Riva. Qui, nel 1977 apre il “Gualtiero Marchesi”.
Inedito, almeno nell’Italia del tempo, è già chiamare un ristorante col proprio nome, ma scandaloso è non avere in carta nessun piatto di pasta. E così è all’inizio.
I primi a premiarlo, a soli sei mesi dall’apertura, sono gli ispettori della rossa Michelin, che gli assegneranno poi, nel 1985, le prestigiose tre stelle. Storicamente il primo locale italiano a ottenerle.
Ho iniziato a collaborare con lui proprio in quegli anni, dice Luca Vercelloni, che si definisce un filosofo prestato al marketing; in pratica, e detta tutto in un fiato: uno studioso e ricercatore di strategie di sviluppo, innovazione e globalizzazione delle marche. Vercelloni è stato – lui scherza sul termine – lo spin doctor di Marchesi per molti anni, con lui e per lui ha scritto e firmato articoli e libri, dal primo Oltre il fornello del 1985, un originale manualetto su come stare ai fornelli, a La tavola imbandita. Storia estetica della cucina, uscito prima per Guanda nel ‘92 e poi per Laterza nel 2001.
Sono stato molto onorato di farlo, continua. Ho potuto assistere da una posizione privilegiata all’emancipazione dalla cucina francese e alla progressiva reintroduzione della pasta, del riso, dei piatti più italiani, reinventati di sana pianta. Allora non c’era niente di paragonabile nella ristorazione italiana, aggiunge. Quello è stato il massimo della creatività.
Come Vercelloni ricorda, è allora che Marchesi mette mano al rinnovamento della cucina italiana ancora molto arretrata e provinciale. Criticato da molti e capito da pochi, andava avanti per la sua strada senza compromessi, con le sue idee, con il suo stile, dice. È stato veramente eroico in quel periodo.
Del resto, col suo ristorante e la sua offerta di cucina, Marchesi parte subito con un atto di superbia intellettuale: il rifiuto, meglio, l’indifferenza a possedere o a condividere la “gola” di chi siede ai suoi tavoli. La sua, sostiene, è una cucina di testa, non di gola. Anche l’arredo, tutto assolutamente moderno e minimalista – lampade ad arco firmate, centritavola con piccole sculture – non indulge a facili suggestioni kitsch di rami o stampe falso antiche. Infine la carta, con le famose sette pennellate di diverso colore, suggerite da un artista cinese Hsiao Chin, esprime bene i concetti ispirativi di semplicità e rigore compositivo.
Interprete di una società del benessere, e in particolare metropolitana – è nella capitale imprenditoriale d’Italia –, dove le ragioni della fame cedono ad una più diffusa cultura della sazietà, Marchesi sente di poter privilegiare una cucina leggera, raffinata, essenziale, che tende ad arricchire l’esperienza degustativa ed il piacere gastronomico di contenuti culturali. Ciò che le sue creazioni insinuano, infatti, è la possibilità di un accesso intellettuale al piatto, suggerendo la via di un piacere gastronomico più completo perché culturalmente più ricco.
Non mi piace essere preso per la gola, dirà in una intervista del 1988, come non mi piace essere preso per il cuore. La mia commozione deve essere una commozione profonda, intellettuale. Amante delle citazioni, a sostenere la sua protestata “irriducibile disciplina mentale” ripete allora con Schönberg, il padre della musica dodecafonica: il cuore deve restare nel dominio del cervello.
Ma una cucina, per così dire, “transemozionale”, che faccia appello al cervello e non solamente alla gola, è una provocazione accettabile solo da pochi palati bene consonanti; la maggioranza è indisponibile ad accogliere l’invito, a riconoscere ad un cuoco una funzione di educatore del gusto.
Io non sono un decoratore, dirà, a me piace l’essenza delle cose. Il suo riso oro e zafferano del 1982, rifà il classico risotto alla milanese sul quale poggia aperta una foglia d’oro commestibile, evocativa dell’oro utilizzato spesso nelle preparazioni della tavola di corte rinascimentale.
La lezione francese gli serve a guardare alla cucina italiana senza pregiudizi; e a farla grande, una cucina che concorra a farci anche un poco europei, come scrive nell’introdurre La mia nuova grande cucina italiana (1980).
Da subito, alla formazione della sua filosofia di cucina, all’individuazione del suo stile, partecipa la precoce passione per le arti figurative e la musica, coltivata nell’assidua frequentazione di mostre e soprattutto di concerti.
Tre anni di studio del pianoforte, una compagna musicista, amici nell’ambiente dell’arte e del design, promuovono in lui metafore descrittive della cucina mutuate dalla musica. Nasce così la distinzione tra cucina tonale e cucina timbrica, identificate rispettivamente nella cucina dell’uso regionale e in quella creativa moderna.
Contro l’ordinato sinfonico della musica tonale, dove tutti i suoni concorrono a formarne uno solo, la musica timbrica pone in primo piano il colore, la voce di ciascuno strumento, fino ad una totale autonomia delle parti nell’insieme.
In cucina questo si traduce nel rifiuto di una pratica che assimila i vari ingredienti con il tutto, uniformando in uno il sapore di ciascun componente, e nell’adesione ad un procedimento che invece separa, evidenziandola, la varietà dei sapori e delle consistenze.
Le coppie oppositive che vengono riferite rispettivamente alla cucina timbrica e a quella tonale, sono quelle intuitive del separare/legare, differenziare/assimilare, dividere/amalgamare.
Il paragone fra musica e cucina s’allarga ai cuochi, visti e divisi in compositori, interpreti o esecutori di uno spartito, vale a dire della ricetta, o ancora distinti, quanto all’organizzazione, in solisti, complesso da camera e orchestra sinfonica.
Il valore negativo e differenziale della cucina timbrica raggiunge la sua efficacia comunicativa nelle cotture separate, secondo proprietà e natura delle materie impiegate, e nella scomposizione dei nessi sintattici usati nella cucina tonale.
Anche l’ordinaria sequenza dei piatti viene sconvolta. Seguendo una logica del contrasto, molte preparazioni vengono riposizionate all’interno del menù, amplificandone la riconoscibilità per via del loro dislocamento. La filosofia del contrasto – io sono l’uomo dei contrasti, ama dire – che regola tutte le proposte di Marchesi, sta a provare l’efficacia dell’interno discorso gastronomico.
Sfogliando la prima edizione della guida de l’Espresso, quella del 1979, Marchesi, è valutato 17/20, a pari merito con Da Guido a Costigliole, La locanda dell’Angelo di Paracucchi e il San Domenico di Imola, nonché il mitico Cantarelli di Busseto. Nella sua guida dei ristoranti del 1981, Luigi Veronelli, pur riconoscendosi fra i suoi fautori, gli rimprovera benevolmente la poca attenzione per i vini, perdonandogli …qualche assolutismo per la volontà e per la fantasia.
Castigato, purgato d’ogni emotività e guidato da un’urgenza intellettuale d’equilibrio, di pulizia e di eleganza formale, Marchesi procede senza pregiudizi a riformulare e ricomporre nel suo stile le ricette della tradizione regionale italiana. La grande svolta, confessa nel 1988, è stata quando mi sono messo davanti ad un piatto in maniera critica: oh, cavolo mi sono detto, questo piatto non è giusto! Di qui nasce La cucina regionale italiana (1989).
Tuttavia, pur reinventati, i piatti conservano quella che lui chiama la radice del gusto, giacché, come spiega in una intervista del 1991: Un cuoco interpreta sempre se stesso, come un pittore, uno scultore. Noi dobbiamo andare a scoprire nel gusto di una persona che esegue una cucina le radici del nostro gusto.
Nelle sue creazioni continua ad agire una memoria condivisa del passato che si scolora sotto l’impulso espressivo dell’artista, la cui elaborazione creativa, tuttavia, è impegnata a far percepire il risultato come rigorosamente “classico”. Un classico moderno. D’altra parte, quello di affrontare e rifare secondo la sua filosofia, le ricette della tradizione regionale italiana, non nasconde l’ambizione di emulare il ruolo dell’ordinatore che ebbe Auguste Escoffier con la sua Guide culinaire per la cucina francese, e non soltanto francese.
Insegnare Marchesi
Il 1993 è l’anno del trasferimento di Marchesi ad Erbusco in Franciacorta. Le sue proposte di cucina si conformano al territorio, a quello che lui chiama il microclima.
Ma oltre alla cucina del territorio, in questa nuova stagione Marchesi continua la sua ricerca recuperando per alcune preparazioni il piatto di portata, ritenendone più adeguato il servizio in sala. Così è per un’anatra al torchio o una preparazione in crosta da tranciare in sala, mentre, per il celebre raviolo aperto o per il riso oro e zafferano conserva il servizio al piatto. La chiama “cucina globale”.
Sempre ad Erbusco nascono piatti ancora più essenziali, ispirati al rigore compositivo della cucina giapponese classica che lui ritiene un modello insuperato.
Intanto, con l’entrata nel nuovo secolo, la sua cucina arriva nel cuore di Parigi all’interno del Jolly Hotel Lotti, a Cannes e in Italia, a Roma, dove nel 2002 riapre l’antica Hostaria dell’Orso.
Nelle sue cucine e alla sua scuola si sono formate ormai più generazioni di nuovi cuochi, suoi allievi o discepoli, e tutti ben presto noti. Per citarne solo alcuni: Mirella Porro, Paolo Lopriore, Pietro Leehman, Davide Oldani, Paola Budel, Enrico Crippa. Naturale che in Marchesi cresca il desiderio di realizzare una scuola, che lui vede come una bottega rinascimentale, giacché, come ripete, la migliore forma d’insegnamento è l’esempio. Una scuola, comunque, che abbia come compito istituzionale quello della formazione professionale di cuochi esperti in cucina italiana.
L’occasione gliela offre Albino Ivardi Ganapini, che nel 2000, assessore provinciale per l’agricoltura, l’alimentazione e le attività produttive a Parma, viene incaricato di sondare la fattibilità per realizzare, dentro la reggia di Colorno, una scuola internazionale di cucina italiana, quella che prenderà il nome di ALMA, in riferimento ad Alma mater.
Verificai che il progetto aveva un senso ed era anche un’opportunità dal punto di vista del mercato, dice Ganapini, e continua, ci chiedemmo allora se c’era un personaggio autorevole a cui ispirarci per la didattica, e naturalmente pensammo a Marchesi, il padre riconosciuto della cucina moderna, l’unico grande cuoco italiano di qualche notorietà all’estero e l’unico che abbia fatto scuola, nel senso che esiste una schiera di cuochi di prima grandezza usciti dalla sua scuola.
Il corteggiamento dura due anni, ricorda sempre Ganapini, che di ALMA è il presidente, perché, ricorda, come mi disse in un convegno a Brescia, prima di accettare voleva essere certo che fosse una cosa seria.
ALMA apre il suo primo Corso Superiore di Cucina Italiana il 14 gennaio del 2004, rettore è Gualtiero Marchesi. Oltre che testimone per l’immagine e la comunicazione, il suo ruolo è fornire indirizzi per la didattica, sulle tecniche di base, sulla storia e cultura della cucina, nonché scegliere i docenti avendo cura che abbiamo competenza e, soprattutto, capacità di “trasmettere”.
Ad ALMA s’insegna la cucina italiana riproposta, nella tecnica e nei metodi, secondo la filosofia marchesiana: un’arte che rifugge dalla ridondanza, da ciò che è eccessivo, ma salvaguarda l’idea portante del piatto, esaltandone le caratteristiche. Quello che non può, tuttavia, essere materia d’insegnamento è lo stile personale del Maestro.
Ma i grandi autori, loro nolenti s’intende, sono anche grandi corruttori.
Come ricordavamo all’inizio circa gli epigoni del Manzoni, è accaduto, accade anche per gli imitatori di Marchesi, che finiscono per essere fatalmente dei moderni imitatori del moderno.
Come tutti i capiscuola che hanno fatto miracoli nella loro cucina, Marchesi ha concorso a procurare disastri nello stuolo dei suoi emulatori, dice meglio Luca Vercelloni, e continua: sono molto critico sul lascito che ha dato alla cucina italiana, perché Marchesi è stato, è un vero creatore, inventore, però, grazie alla sua inventiva, ha preso piede un andazzo per cui tutti sono diventati creatori. E ricorda che quando lui era un creativo, isolato, profeta misconosciuto in patria, non gli davano retta, mentre oggi si grida al miracolo per qualunque guazzabuglio.
Gualtiero Marchesi è stato riconosciuto come colui che ha sprovincializzato, rinnovato la cucina italiana. Cosa verissima, ribatte Vercelloni, ma secondo me non è quello il suo grande merito, anzi è il suo grande demerito, perché con il suo successo, tutti si sono sentiti in dovere di creare, rivoluzionare, essere originali ad ogni costo. Oggi, qualunque giovane cuoco che s’avvicina alla carriera è convinto che il suo compito sarà d’inventare nuove ricette, e invece la prima cosa da fare è saper fare da mangiare bene. Alla fine quello che Marchesi lascia è il suo stile, sono le sue ricette, le sue invenzioni, non quello che altri hanno travisato, e conclude: lui viene considerato il caposcuola di qualcosa che in realtà non gli appartiene.
Da storico medievalista, noto per i suoi numerosi studi sull’alimentazione e la cucina, Massimo Montanari ritiene Gualtiero Marchesi il personaggio per eccellenza della seconda metà del Novecento, colui che ha innovato il panorama gastronomico italiano. Trovo straordinario il fatto che si è proposto come un cuoco d’idee, come un intellettuale della cucina e con delle proposte che andavano contro i luoghi comuni. Tuttavia, le sue creazioni difficilmente entreranno nella tradizione della cucina italiana, perché lui è un artista che finisce con se stesso. Le sue idee molto creative, le sue provocazioni non si possono insegnare professionalmente, sostiene. I suoi piatti restano i capolavori di Gualtiero Marchesi datati seconda metà del Novecento. Lui entra nella storia così.
Gualtiero Marchesi non potrà rappresentare, dunque, quello che ha rappresentato Auguste Escoffier per la cucina francese: un codificatore della cucina italiana. Dal punto di vista storico Montanari lo ritiene molto difficile. E questo per delle oggettive considerazioni: A differenza di quella francese, la cucina italiana è una rete di diversità locali che la fa incompatibile con il concetto di codificazione, afferma. Sin dal Settecento, con François Massialot, nella cucina francese c’è un’ansia di porre le fondamenta metodologiche della cucina francese. La cucina francese è insegnabile.
Sempre a giudizio dello storico, invece, la cucina italiana, da Bartolomeo Scappi all’Artusi, mostra una vocazione antologica, non ci sono delle vere codificazioni, piuttosto delle messe a punto, molto precise, molto consapevoli dei piatti che già esistevano e che venivano però rispettati nelle loro diversità. Una codificazione non funziona per la nostra cucina, ribatte, è contraria allo spirito della tradizione italiana, di quella diversità che è poi la ragione del successo della cucina italiana nel mondo.
Questo giudizio non impedisce che con ALMA si sia avviato un progetto per esportare una “cucina italiana internazionale”, con formule cucinarie certe dei piatti della nostra cucina regionale che all’estero registrano numerose quante fantasiose deviazioni dall’originale. Il primo passo è stato fondare nel 2006 a New York, in collaborazione con ALMA, l’Italian Culinary Academy.
Sempre nello stesso anno Marchesi pubblica Il codice Marchesi, un manifesto del suo protagonismo artistico e insieme una testimonianza della sua poetica. Sono 13 voci chiave – armonia, bellezza, gusto, verità, semplicità ecc – sotto le quali compaiono altrettanti suoi riconosciuti capolavori culinari.
In un’epoca di riflusso, in cui una schiera di “porcelloni golosi” – come amano definirsi alcuni critici gastronomici – sembrano andare incontro ai piatti come colpiti da una sorta di sindrome di Stendhal, l’opera di Marchesi sembra destinata all’isolamento e all’incomprensione. Chiedere alla cucina d’essere costantemente sorpresi, commossi, divertiti, chiedere ai cuochi sempre nuovi motivi di meraviglia, applaudire al sensazionalismo, cercare nel piatto emozioni forti, tutto questo è lontanissimo dalla filosofia e dallo stile che guidano le creazioni marchesiane.
Ciò nonostante, e nonostante la rispettosa distanza che la critica dei ghiottoni militanti continua a tenere dal fenomeno Marchesi, non c’è chi non lo giudichi ormai un classico. Ma chi nasce col dono fanciullesco dell’innovatore non può rassegnarsi alla condizione riconosciuta di classico.
Festeggiando i suoi settanta anni, Marchesi aveva fatto sua un’affermazione di Pablo Picasso: “Trascino tutto quanto con me e vado avanti, è il movimento della pittura che m’interessa”; così è per la sua ricerca in cucina che continua a muoversi liberamente e a rifiutare d’essere giudicata con stelle, cappelli e forchette.
Per denunciare la dittatura delle guide gastronomiche, ritenute le vere colpevoli dell’involuzione della cucina moderna, nel giugno 2008 Marchesi compie un gesto rivoluzionario: contesta il sistema di attribuzione dei punteggi della Michelin e rimanda al mittente le stelle, chiedendo solo commenti e non punteggi. Nell’edizione 2009 il suo ristorante sparisce dalla guida, rimanendo citato come il ristorante dell’Albereta, albergo in cui ha sede; naturalmente, senza alcun commento. Alla fine, se è vero che la storia siamo noi, come canta Francesco de Gregori, saranno allora i nostri nipoti o pronipoti, forse, a riconoscere come tradizionali le ricette della cucina italiana riformulate da Marchesi. Noi, oggi, crediamo di poter affermare che Marchesi è stato il portatore di uno stile suo originale, di un gusto artistico, d’invenzioni che rimarranno certamente nella storia della cucina italiana. Non solo. La sua superbia intellettuale, che molti ancora gli rimproverano, è stato un modo scandaloso di rivendicare una libertà creativa per il cuoco, per tutti i cuochi. La famosa foto di Oliviero Toscani che lo ritrae non in “abito da lavoro” ma vestito con un’elegante giacca da sera, fu anche il manifesto, la dichiarazione di una ritrovata dignità ed orgoglio professionale della figura del cuoco.
Come ricordava Massimo Montanari, la cucina italiana è incodificabile, e Gualtiero Marchesi non s’insegna.