Si racconta in questa intervista uno dei più noti chef campani, famoso nel mondo.
Gennaro Esposito è nato trentasette anni fa sotto il segno dell’ariete a Vico Equense. Due sono i momenti determinanti della sua formazione professionale: uno stage da Vissani e l’incontro con Alain Ducasse, una delle volte in cui “il maestro” si era recato in vacanza a Positano.
In poco tempo Esposito si è trovato nelle cucine del Louis XV a Montecarlo e del Plaza Athénée a Parigi, dove (ama raccontare): “ho capito che cosa significa la perfetta organizzazione del lavoro e l’attenzione maniacale ai dettagli”.
Tornato nella sua amatissima terra d’origine, nel 1992 insieme a sua moglie Vittoria, che fa la pasticciera e dirige la sala, ha aperto “La Torre del Saracino” (Via Torretta 19, Loc. Marina d’Equa, tel. 081-8028555, www.torredelsaracino.it) con una veduta splendida sul Golfo di Napoli. Non gli sono mancate le gratificazioni professionali: la prima stella Michelin nel 2001, la seconda nel 2008, tre forchette del Gambero Rosso dal 2003, e il riconoscimento dell’Espresso quale migliore ristorante campano nel 2006.
Una sera, durante la IX “Festa Internazionale della Pasta”, rinominata “I Sensi della Pasta”, che si è svolta nel vicino comune di Gragnano (conosciuto in tutto il mondo come “la capitale della pasta”) Esposito ha raccontato la sua passione per la cucina a Lucy Gordan, in esclusiva per La Madia.
L’intervista
I nostri gusti per il cibo sono strettamente collegati all’infanzia; le sue prime memorie sul cibo?
Io sono davvero fortunato ad avere una mamma che mi ha insegnato tantissime cose rispetto ai prodotti alimentari e alla cucina tradizionale. Lei e mio nonno avevano dei terreni a mezzadria, quindi da sempre a casa mia ho avuto la fortuna di mangiare, di conoscere e di capire il valore dei prodotti naturali. Era normale mangiare i prodotti di stagione, coltivati in maniera biologica senza uso di pesticidi. Questo bagaglio di esperienze mi è servito tantissimo: quando oggi elaboro la mia cucina, metto nei miei piatti i gusti e i concetti di “quella” cucina.
C’è un piatto che non vedeva l’ora di mangiare quando si svegliava la mattina o quando tornava da scuola?
Tutti i piatti tradizionali della mia terra, ma in particolare “il migliaccio” con la semola cotta nel latte.
Altri chef professionali in famiglia?
Ho uno zio pasticciere con cui ho cominciato a lavorare qui a Vico Equense. Avevo nove anni. Quest’esperienza mi ha fatto scegliere di rimanere in cucina.
Lei ha fatto uno stage da Vissani e poi da Ducasse, vero?
Sì, anche quelle sono state due esperienze decisive.
Su Internet Lei scrive che ha imparato molto sia dalle gentilezze sia dalle cattiverie di Vissani. Un commento su Vissani? Che cosa ha imparato da lui?
In cucina c’è bisogno, a volte, di un certo rigore ed anche di una certa severità: aiutano la concentrazione, specialmente in un giovane. Comunque impongono un ritmo e delle regole fondamentali. Quindi è molto importante che il tuo maestro sappia darti questo tipo di disciplina. Prima in cucina c’era un ambiente molto più severo e rigoroso di oggi, senz’altro più gerarchico. Da Vissani ho imparato ad adoperare un più eòevato numero di prodotti rispetto a quelli convenzionali in uso in quel periodo, quindi ho allargato molto la conoscenza degli ingredienti e delle tecniche. Poi mi ha insegnato che la fantasia, unita alla dimestichezza nell’uso degli ingredienti e la loro perfetta conoscenza permette di non porsi limiti in cucina, quindi di creare abbinamenti assolutamente inediti e regalare ai clienti esperienze uniche. Questa era e rimane la mia meta.
Da Ducasse?
Mi ha fatto scoprire e capire il mondo della cucina francese che fino ad allora conoscevo soltanto attraverso i libri o per sentito dire. Quello che mi piaceva di Ducasse era che lui è un maestro rinascimentale, nel senso che asseconda le attitudini dell’allievo: non impone il suo stile, bensì propone in modo molto sottile ma incisivo. È capace, appunto, di lasciare intatta la tua capacità, la tua creatività con la sola aggiunta del suo enorme bagaglio d’esperienza. Ducasse è stato capace di crearsi una scuola, un seguito, dei discepoli che gli permettono di aprire locali in tutto il mondo, dove si fa cucina di altissima qualità. Mi ha colpito anzitutto il suo grande amore per la cucina mediterranea che si arricchisce della grande tradizione della cucina francese. In più ammiro il suo rigore nel proporre la vera cucina francese, quella classicissima, che propone soprattutto nel suo ristorante a Parigi, mentre i piatti sul menù del suo ristorante “Spoon” a Saint Tropez sono più mediterranei. Ducasse è un cuoco che non ha confini o pregiudizi dal punto di vista dei sapori; riesce ad essere molto convincente nell’interpretare le cucine non francesi. Questo rispecchia la sua grande curiosità e il suo rispetto per tutto ciò che è cucina.
C’è un momento o un episodio che ricollega a quando Lei ha capito che questo era il mestiere, la carriera nella quale avrebbe voluto proseguire?
Come ho già detto, ho sempre avuto un grande amore per il cibo, che devo a mia madre. Probabilmente, anche quando ancora mi allattava, mi ha trasmesso cose buone. In pasticceria da mio zio, quando ho capito che mettendo due sapori insieme si potevano inventare piatti sublimi, quest’alchimia, quest’artigianalità, questa manualità mi ha catturato per sempre.
Dove ha iniziato a lavorare in cucina e non più in pasticceria?
In un luogo molto semplice, una pizzeria di questa zona. Avevo quattordici anni.
Le qualità essenziali per essere top chef?
Per prima cosa penso che oggi un top chef debba essere una persona di cultura. Deve avere il tempo di inventarsi delle regole, il tempo per approfondire la sua cultura e la sua conoscenza sia dal punto di vista dei prodotti, sia dal punto di vista della cultura generale. Secondo punto: ovviamente deve essere creativo, ma come partenza deve conoscere bene anche la cucina tradizionale. Terzo: deve sapere motivare, coinvolgere, stimolare le persone che gli stanno intorno. Deve galvanizzare la sua squadra e trasmettere la sua passione per questo mestiere, soprattutto ai giovani che stanno iniziando a sacrificare molto tempo delle loro vite per un ideale, per una loro ambizione. È fondamentale che un giovane che inizia a lavorare si senta parte integrante di una squadra, di un progetto. Quarto: deve parlare con i suoi clienti per sapere se i suoi piatti piacciono o no.
L’aspetto del Suo lavoro che ama di più?
La diversità tra un giorno e un altro: i piatti, i colori, i gusti, gli ospiti che cambiano ogni giorno, rendono questo mestiere avvincente e combattono adeguatamente la monotonia della routine.
Di meno?
Quando ho davanti clienti che non sono curiosi, che non vogliono scoprire cose nuove.
La Sua filosofia culinaria?
Adoperare soltanto dei prodotti di alta qualità, rispettare la stagionalità di questi ultimi, avere un profondo senso etico e professionale per il mio mestiere. In breve, massima cura in quello che faccio e massima qualità nel prodotto che uso.
Come descriverebbe la Sua cucina?
Schietta e semplice, dove la cura e l’attenzione fanno diventare ogni ingrediente e ogni piatto particolare.
Le Sue specialità?
In realtà non mi piace preferire un piatto ade un altro. Mi piace pensare che ogni mio piatto abbia una sua personalità, una sua caratteristica. Come per ogni chef, ci sono inevitabilmente alcuni dei miei piatti che riscontrano più successo da parte del pubblico.
A che cosa attribuisce il Suo grande successo?
Bisogna chiederlo agli altri, in realtà, però forse è dovuto al mio impegno costante, alla mia onestà, alla mia lealtà verso i miei clienti, alla mia squadra (molti dei miei collaboratori lavorano qui da quando abbiamo aperto nel ’92), ad alcuni dei miei fornitori, e alla mia fortuna di vivere in questo territorio bellissimo con tanti prodotti deliziosi e con una grande tradizione culinaria.
Fino ad ora abbiamo parlato di Gennaro Esposito chef; adesso vorrei conoscere meglio Gennaro Esposito la persona. Per esempio, quali sono i Suoi piatti preferiti?
Il migliaccio di mia madre e la pizza quella classica, la marinara, la margherita, ma in verità amo tutta la cucina che contiene una storia, un concetto, una filosofia, e, se cito un piatto, faccio un torto agli altri 10,000 che mi piacciono. Sono una buona forchetta.
Lei ama il vino? Quali sono i suoi vini preferiti?
Il Borgogna, tutto il Pinot Noir in tutte le sue espressioni.
I vini francesi sono più accattivanti dei nostri. Dei vini italiani mi piacciono il Barolo, il Barbaresco, il Sangiovese, il Brunello, le uve autoctone con molto carattere. Mi piacciono molto di più i vini rossi rispetto ai bianchi; in questo momento mi affascina lo champagne.
Gli chef sono noti per avere collezioni di moto, di macchine veloci, o di orologi. E Lei?
Fare lo chef non mi ha mai dato il tempo necessario per coltivare un hobby o per il collezionismo, ma amo molto la musica e ho molti dischi degli anni della mia vita: mi spiego meglio, degli anni ’70, ’80, dai Rolling Stones, ai Led Zeppelin, la musica che aveva le radici nella protesta…
Ci crede nei giudizi delle guide? L’hanno aiutata o Le hanno aggiunto soltanto stress?
Le guide mi hanno aiutato molto. Come lei ha notato, noi siamo in un posto difficile da trovare. Tante persone sono arrivate qua per la prima volta perché hanno letto di noi su una guida.
Oltre Vissani e Ducasse, altri chef che ammira?
Gualtiero Marchesi, Aimo e Nadia, Ferran Adria, ma mi è difficile ricordare e citare tutti. Quando abbiamo aperto “La Torre del Saracino”, quasi tutti i grandi chef italiani erano nel nord. Qui vicino, nel sud, c’era soltanto Don Alfonso che aveva un grande ristorante, perciò gli esempi da seguire erano per me anche molto lontani geograficamente. Ho girato molto e ho sempre combattuto i cliché; non ho mai copiato i piatti già inventati da qualcun altro. La mia ambizione era e rimane gestire un ristorante dove i miei ospiti possano gustare una cucina e godere un’accoglienza tutta mia.
I suoi clienti da dove vengono?
Soprattutto dall’Europa. In generale sono persone molto aperte sotto il profilo culturale. Ad un certo livello non esiste più la nazionalità del cliente, ma esiste il gourmet. Il gourmet è una persona del mondo, che adora scoprire, è una persona curiosa, che vuole conoscere la cucina locale. Il gourmet ha la cultura del viaggiatore.
Anche lei ama viaggiare?
Sì, tanto. Gastronomicamente parlando mi affascina la cucina giapponese. Sono convinto che ogni territorio abbia molto da raccontare di sé. Sarebbe bello se ognuno di noi avesse un mese all’anno per viaggiare e far crescere la propria cultura gastronomica. Lo chef dovrebbe cercare di seguire questa filosofia, conoscere e confrontarsi con altre culture. Questi confronti non contagiano la tua cucina ma la arricchiscono.
Un suo giudizio suigli chef proprietari di imperi, che gestiscono ristoranti in più località come Ducasse e Keller?
Ammiro molto chi riesce a esportare la propria creatività. Avere successo in più località, su tante platee diverse è solo un fatto positivo. Mi piacerebbe essere capace di farlo. Sarebbe un modo per allargare i miei confini, di confrontarmi con altre culture. Non penso che chi ci riesce è meno chef di chi non lo fa. Ovviamente lo chef con esercizi in tutto il mondo ha creato, come Ducasse, dei discepoli e un sostegno organizzativo e imprenditoriale non indifferente. Non pensiamo che uno chef vada da solo con la sua borsa a Tokio per aprire un ristorante. Sarebbe pura utopia. Devi avere un’organizzazione che ti prepara il terreno. Così puoi andare a fare il cuoco ogni tanto insieme ai tuoi discepoli locali che ti gestiscono il ristorante.
Se non avessero fatto lo chef Heinz Beck avrebbe voluto fare il pittore, Gualtiero Marchesi il pianista, Thomas Keller lo shortstop dei “New York Yankees”. E Lei?
Musicista o DJ. Suonare uno strumento è un gesto nobile. Apprezzo molto chi sa suonare uno strumento.