Lo chef rivelazione del 2012.
Nel febbraio scorso, per un pugno di ore, Felice Sgarra, pugliese di Andria, era a Milano per Identità Vent’anni, la giornata dedicata a chef che non hanno ancora compiuto trent’anni. Lui li compiva proprio quel giorno insieme a suo fratello gemello, che è sommelier.
Felice ha studiato all’istituto alberghiero di Roccaraso, in Abruzzo. Il suo compagno di banco era William Zonfa che adesso è il responsabile stellato della ristorazione alla Magione Papale a L’Aquila, ma a lungo i due sono stati fianco a fianco nella cucina di “Vinalia”. Dopo il terremoto, Felice ha deciso di tornare ad Andria dove, dal dicembre 2009 al dicembre 2010, era l’executive chef del ristorante “Le Lampare al Fortino” in Trani. La sua vita cambia radicalmente nel febbraio del 2011, quando diventa chef e partner dell’ “Umami” a Trani. Lucy Gordan, la nostra inviata speciale, l’ha incontrato per La Madia prima a QOCO/Un filo d’olio nel piatto, la kermesse internazionale di cucina a base di extravergine di oliva cultivar Coratina tenutasi ad Andria nel dicembre scorso, e poi a IdentitàGolose nel febbraio scorso.
Com’è nato il Suo amore per la cucina?
E’ nato guardando la nonna che preparava le orecchiette sulla spianatoia in legno, o andando con il nonno al frantoio a molire le olive.
Altri chef in famiglia?
La mamma e le nonne, gli chef invincibili.
Come si chiamava il Suo mentore e che cosa ha imparato da lui?
I miei maestri si chiamavano Michele Memeo, Peppino D’Introno e Pietro Zito (ancor prima che aprisse Antichi Sapori) quando lavoravo all’Ostello di Federico II vicino al Castel Del Monte. Poi ce ne sono stati molti altri; da ognuno di loro ho imparato una tecnica, un segreto o un modo di fare. Si parla sempre degli anni ’93-’94-’95, quando le idee si fermavano solo a grandi riflessioni e non si riusciva a capire bene cosa si poteva realmente mettere in pratica.
Il Suo ristorante si chiama “Umami”, cosa significa?
Umami è il quinto gusto, scoperto nei primi anni del ‘900 da una ricerca sulle alghe; il quinto gusto, il glutammato, la sapidità in essere che abbiamo nel palato, sulla lingua, è ben codificato: abbiamo dolce, amaro, acido e salato. Il quinto gusto è appunto l’umami. E’ il gusto che poco riusciamo a individuare e che ritroviamo nel parmigiano e nella soia. Recensito come quinto gusto nel 1982, l’anno della mia nascita, l’ho scelto anche per una filosofia di innovazione.
“Umami” si trova ad Andria, in Puglia; cosa significa aprire un ristorante di alta cucina nel meridione dell’Italia? Quali difficoltà ha trovato e superato?
Significa avere un cuore, non un ristorante di alta cucina. La difficoltà infatti è quella di essere caparbio, altruista e coraggioso verso la propria filosofia di cucina, senza mollare. L’alta cucina per me si rappresenta in un ristorante di cultura dove nei piatti c’è un’emozione tradotta in sapori veri, capaci di creare una comunicazione emotiva con il cliente.
Le qualità essenziali per essere top chef?
Forse per essere top chef serve lasciar spaziare la mente e conferire un’identità precisa e riconoscibile ad un gusto. Come nel caso di Aimo e Nadia con lo spaghettone al cipollotto o con la sifonata di mortadella di Massimo Bottura.
L’aspetto del Suo lavoro che ama di più?
Quando posso parlare con i miei clienti o i miei ospiti a fine pasto e sentire cosa hanno provato, le loro emozioni, guaradare poi nei loro occhi per vedere se brillano. Lì il mio cuore va a mille: una sensazione inspiegabile.
Di meno?
La critica negativa senza appello, perchè mi ferisce, perché è devastante. Però capisco bene due cose: la critica ci forma, ma molto spesso c’è chi non capisce che l’errore umano si deve superare.
La Sua filosofia culinaria?
Poter essere, poter dare, poter aprirsi. Il solo aprirsi con la mente senza nascondere segreti: in cucina non esistono segreti, esiste una manualità ed è quella che va apprezzata. E poi una ricerca che non si deve mai fermare.
Come definerebbe la Sua cucina?
La mia cucina vuole essere lungimirante nel senso opposto, cioè tradizionale. La tradizione oggi consiste nel far sentire i sapori delle sostanze in un’ottica di innovazione, ma ricordando la nonna. Definirei la mia cucina come contemporanea, semplice ed essenziale.
Le Sue specialità?
La mia specialità ancora non l’ho trovata: per me tutto è speciale. Per me è la sostanza, l’ingrediente a rendere speciale qualcosa.
Parliamo di cose pratiche? In quanti siete in cucina?
In cucina siamo, con me, in sette, quattro i miei capi partita.
A che cosa attribuisce il Suo grande successo?
Il mio non è un successo se non sul piano personale. Ho una gran voglia di fare e di portare avanti quello che sento. Per me il successo ce l’hanno i grandi come i Cerea, Massimo Bottura, Niko Romito, Pinchiorri, i Santini, Uliassi, Moreno…
Quali sono i suoi piatti preferiti?
Non ci sono piatti preferiti, ci sono degli ingredienti che amo, che coltivo, ne sento il profumo, li assaggio e poi li cucino con l’aggiunta dell’ingrediente segreto che è il cuore.
I Suoi vini preferiti?
I rossi, come il Primitivo di Manduria, il Nero di Troia e il Negramaro. A seconda dell’umore, preferisco anche bollicine e i vini bianchi fruttati come Friulano e Riesling.
Un piatto che non Le piace?
Quello fatto male, senza cuore.
Gli chef sono noti per avere collezioni di moto, di macchine veloci, o di orologi, e Lei?
Io amo tutto il buon gusto. A parte il possesso di un Rolex Ghieraverde, mi definisco un poliedrico del gusto, perchè mi piacciono le barche, gli abiti su misura, la grande architettura e tutto quello che ne fa parte.
Quali sono i Suoi passatempi?
Amo fare i grandi viaggi del gusto, ossia potermi concedere anche due, tre giorni per andare a pranzo o a cena in un grande ristorante per riuscire a riflettere e capire secondo il mio modo di vedere le cose.
Crede nei giudizi delle guide? Un consiglio che vorrebbe dare loro?
Credo nelle guide perchè fanno parlare. Il successo poi non è determinato da una guida o da una critica, ma dal sorriso che uno chef ci mette. Un consiglio: mangiare bene per un cliente dovrebbe essere anche una questione di fiducia, così da poter godere di quelle coccole che gratificano, oltre al cibo.
Altri chef che ammira?
Heinz Beck, Gualtiero Marchesi, Cerea, Niko Romito, Gennaro Esposito, Uliassi, Enrico Crippa, Moreno Cedroni, Ferran Adria, Cracco… Sono tanti ed ognuno di loro ha un qualcosa che parla di sé, un qualcosa che ha scritto nella storia della cucina e della gastronomia.
Uno in particolare, comunque, è Pietro Zito, perchè anche lui, come me, non si definisce chef. Siamo a soli 8 km di distanza e ammiro in lui la semplicità e l’amore per la terra. Ammiro anche Sebastiano Lombardi per la sua grande umiltà.
Se non avessero intrapreso la carriera dello chef Heinz Beck avrebbe fatto il pittore e Gualtiero Marchesi il pianista; invece Cesare Casella aveva la professione dello chef nel sangue. E Lei?
Mi sarebbe piaciuto fare l’architetto. Di certo avrei messo tanta passione in un lavoro che oggi invece ci parla di crisi. Ma anche in quel settore attualmente c’è solo da guardare avanti, abbassare la testa e correre a lavorare. Come in cucina.