Nato a Udine l’11 luglio 1970, Emanuele Scarello è lo chef patron del Ristorante “Agli Amici dal 1887”, premiato con una stella Michelin dal 2000 e riconosciuto dalla guida L’Espresso con il punteggio di 16.5/20 come uno tra i migliori ristoranti della regione Friuli/Venezia Giulia. Presidente italiano dell’Associazione Jeunes Restaurateurs d’Europe, Scarello ha rilasciato questa intervista in esclusiva per La Madia alla nostra inviata Lucy Gordan, durante un educational organizzato da BuonItalia per il Ministero dell’Agricoltura.
I nostri gusti per il cibo sono strettamente collegati all’infanzia; le sue prime memorie sul cibo?
I miei primi ricordi del cibo, più che collegati a episodi della mia infanzia, sono riferiti al territorio dove sono cresciuto e dove vivo tuttora.
Per esempio, non potrei mai pensare di fare un menù senza metterci gli gnocchi perché Godia, dove siamo adesso, è proprio il paese della patata. Qua si fa una grande festa della patata – e quindi degli gnocchi – a settembre. La patata! Ecco: questo è un sapore che sento nel mio DNA. Il profumo di quando si fa la patata bollita e poi la si schiaccia… in quel momento lì, bisogna sentire il profumo della patata buona. Solo al tatto, noi, toccandola appena bollita, sentiamo se ha amidi sufficienti per fare uno gnocco buono. Queste sono le sensazioni con cui sono cresciuto e che mia madre mi ha trasmesso.
Come si capisce se questa patata appena bollita è buona o no?
Allora: dopo che è stata raccolta a fine agosto, a settembre bisogna lasciare la patata fuori all’aria aperta affinché perda l’acqua. La stessa patata, nel mese di gennaio, conservata sempre in un luogo buio, farà rimanere le dita quasi incollate perché in quel momento avrà perso ancora tant’acqua e avrà concentrato gli amidi. Per fare lo gnocco in quel momento basterà pochissima farina, proprio un velo. Ed è questo il periodo migliore dell’anno per fare gli gnocchi, perché la patata è un ortaggio vivo. Ad agosto facciamo lo gnocco in un modo, a gennaio in un altro. Più o meno farina, più o meno uovo. Una volta le stagioni segnavano proprio il tempo giusto per fare le cose. Per esempio, si diceva la scorsa estate: “è un’estate fredda…”. Ma i contadini del paese dicevano: “Per forza, siamo indietro di una luna”, quindi siamo un mese indietro con la stagione”. Loro sanno queste cose…
La vostra famiglia gestisce “Agli Amici” da 1887 e da cinque generazioni, quindi si potrebbe dire che Lei è nato in cucina, che la cucina fa parte del Suo DNA. Questa è la motivazione che l’ha portata a diventare chef?
Da sempre i nostri genitori, sia a me che a mia sorella Michela (che fa il sommelier e la direttrice di sala) ci hanno invitato a studiare; Michela ha studiato lingue. Ma poi è stato naturale per noi entrare nel ristorante di famiglia. Non è stato perché i genitori ci hanno detto: “Venite qua!” Anzi, ci dicevano: “No, è un lavoro che richiede molti sacrifici. Pensateci.” In realtà questo mestiere è una cosa troppo bella: io penso veramente di essere fortunato, molto fortunato, perché faccio un lavoro bellissimo. Ho la possibilità di creare e lavoro con i miei ragazzi che sono eccezionali. Non cambierei questo lavoro – lo dico con il cuore – per tutti i soldi di questo mondo, neanche se vincessi la lotteria, perché dopo un po’ mi annoierei. È vero che viviamo il nostro lavoro, Michela ed io, in una condizione di privilegio: poter fare quello che ci piace, avere dei clienti che apprezzano il nostro lavoro, poter vivere di questo lavoro…
Ma non è uno svantaggio stare a Godia e non in una grande città?
C’è un pro e un contro. Sì, la gente deve venire apposta, ma così arriva maggiormente predisposta ad apprezzare il nostro lavoro. Qui i ritmi sono ancora umani: il pomeriggio riesco a giocare con mio figlio e a chiacchierare con il contadino che ci vende le patate. Queste sono cose impagabili. Quando io offro un pezzo di carne al mio ristorante, conosco dove è cresciuto l’animale e che cosa ha mangiato. In una grande città questo non sarebbe possibile. Tutto è più veloce.
In breve, la storia del ristorante…
All’inizio si trattava di una conduzione a livello di osteria. La domenica si gestiva il matrimonio o il battesimo di qualcuno del paese. Ma prima ancora, nel 1887, c’era la bottega dei miei trisavoli, dove si vendevano caramelle sfuse: era l’emporio del paese e c’è ancora la casa qui davanti. Sulla facciata c’è scritto “Generi Coloniali Alimentari”. Il primo proprietario si chiamava Umberto, ed era il bisnonno di papà. Lui era una guardia del Re d’Italia; prese questa licenza quando andò in pensione. Poi è diventato – oggi sembra incredibile – il locale dove c’era la prima televisione di tutta la zona e dove si radunavano tutti gli uomini a guardare il pugilato con Primo Carnera che era friulano. In seguito, piano piano, tra matrimoni e un po’ di cucina, siamo cresciuti fino alla dimensione di oggi. La mamma ha iniziato ad andare in giro a lavorare nelle grandi cucine in Francia e nelle altre regioni d’Italia. Papà ha iniziato a fare corsi da sommelier, poi anch’io, e poi Michela. Non è stato un salto. No. Un passo dopo l’altro, siamo cresciuti. Dapprima mamma e papà organizzavano banchetti per 500 persone, il sabato e la domenica, ma poi si sono chiesti: “Ma che piacere c’è nel fare questo tipo di cucina? Un piacere solo economico, ma senza la passione di cuore e di testa!”. Allora hanno deciso di cambiare. Quindi la mamma ha iniziato a fare i suoi giri. Il top era da “Lenôtre” a Parigi. All’inizio è stato difficile. Abbiamo perso tanti clienti locali che volevano ancora la cucina di sempre. Eppure i miei genitori hanno deciso di insistere su questa strada, sebbene certi giorni facessimo soltanto due o tre coperti o anche zero. Era il prezzo che hanno dovuto pagare per essere stati i pionieri dell’alta cucina in questa zona.
Perché il locale si chiama “Agli Amici”?
La ragione è ovvia: era un punto di ritrovo in paese per gli amici. Si chiama così da 1962. Prima non serviva che avesse il nome esposto. Era conosciuto come “Paluzzan”, il sopranome di mio nonno.
La Sua di storia? Ha lavorato sempre qui o ha fatto stages altrove, come sua madre?
Sono diplomato alla Scuola Alberghiera ad Arta Terme, qui in provincia di Udine. Poi ho lavorato in sala, dopodiché un anno al ristorante “Boschetti” a Tricesimo quando aveva due stelle Michelin. Ho trascorso un breve periodo a Vienna per imparare questa cucina molto borghese, a cui ha fatto seguito un periodo a Parigi e in Spagna. Penso che avere una formazione a 360 gradi nell’ambito della ristorazione sia fondamentale. È come uno che studia medicina e poi fa la specializzazione. Non posso pensare di realizzare un piatto se non conosco le abitudini della gente che si siede al mio ristorante. Sala e cucina devono lavorare insieme per creare piatti e rapporti con gli ospiti di eccezionale qualità.
Dove ha lavorato a Vienna e Parigi?
Te li potrei pure dire tutti, i nomi, mi sembra di dover giustificare la mia cucina perché ho lavorato di qua o di là. No, la mia cucina è la creazione che metto nel piatto e la mia testa deve essere libera da ogni condizionamento. Sono un po’ atipico, ma non sono le location importanti quelle che contano, sono le persone ed io ho avuto la fortuna di avere delle persone molto importanti che mi hanno aiutato a crescere. Uno su tutti era Giorgio Trentin, che purtroppo oggi non c’è più. Era il proprietario del ristorante “Boschetti”. Giorgio possedeva un grande senso dell’ospitalità. Aveva tanta classe. Sapeva far sentire a proprio agio la gente e questo è molto importante nel nostro mondo. Più che fare un piatto buono, bisogna mettere l’ospite in una condizione di benessere.
È stato difficile per la mamma cederle i fornelli?
No, è sempre coinvolta. Tuttora le chiedo consigli. Lavora sempre qui. Siamo partiti in tre in cucina: io, mamma e un altro ragazzo. Oggi siamo in otto in cucina, in quattro al service, una persona in amministrazione e una che si occupa dell’ufficio stampa. Sì, è sempre un locale familiare, ma ognuno segue la propria parte.
Le qualità essenziali per essere top chef?
Non sono un top chef perché non mi sento un top chef. Mi sento uno chef molto appassionato. Ho una grande passione, una grande voglia, una grande energia, e un grande gruppo di lavoro. Sono convinto che occorra nutrire soprattutto un sincero rispetto per tutto, dalle materie prime alle persone. E devo portare rispetto a tutti quelli che hanno permesso che il mio ristorante abbia ora questo risalto. Ma il rispetto è una cosa che sta scemando, purtroppo. Io invece rispetto chi mi ha preceduto, il mio territorio, le materie prime. Inoltre voglio essere umile, nel senso che non devo dettare legge. La ristorazione per me significa conciliare il momento conviviale con quello cerebrale.
Cosa significa essere il presidente italiano di “Jeunes Restaurateurs d’Europe”?
Significa decidere la direzione che deve prendere il gruppo, avere una “mission”. La mia è quella di portare la cucina a un livello culturale importante. Per esempio quest’anno abbiamo deciso di dare una borsa di studio a un giovane chef italiano che avrà la possibilità di entrare nelle cucine dei membri italiani JRE per un anno. E paghiamo tutto noi.
L’aspetto del Suo lavoro che ama di più?
Il lavoro di squadra. Il fatto che lavoro con dei ragazzi stupendi. Preparare dei piatti che parlano di noi. Bisogna ricordare che sono i fatti che contano, non le parole.
La squadra è 100% italiana?
No, ci sono due giapponesi che lavorano con noi già da molti anni. Uno, che si chiama Tatsuya, è il nostro pasticciere. Lui è stato premiato dalla guida L’Espresso come “Il Migliore Pasticciere in Italia” del 2009.
L’aspetto che ama di meno?
Nessuno.
La Sua filosofia culinaria?
Cucinare per gli altri come vorresti che si cucinasse per te. Questa è la mia etica di base. Cucino per i miei ospiti come cucino per mio figlio. Oggi bisogna saper togliere ingredienti da un piatto, non aggiungerli. Quindi, non ci sono mai più di tre ingredienti nei miei piatti. Con questi tre ingredienti dobbiamo sapere regalare un’emozione ai nostri ospiti.
Come definirebbe la Sua cucina?
Essenziale e contemporanea, di sapore ed equilibrio.
Le Sue specialità?
La zuppa di moleche con gnocco grigliato e bietole scottate.
A che cosa attribuisce il Suo grande successo?
A tutte le persone che mi hanno permesso di raggiungere questo traguardo. Alla mia famiglia, ai miei ragazzi, e a chi si siede alla mia tavola.
Quali sono in generale i suoi piatti preferiti?
Professionalmente parlando, indubbiamente il piatto che preferisco è quello che farò domani. È quello che mi permette di fantasticare e pensare che la cucina sia sempre viva. Ciò che mi piace ricordare per arrivare al piatto di domani, sono i piatti che faceva mia nonna per mio nonno. Da lì sento di dover partire per proseguire.
Il piatto che amo più mangiare è l’oca di vigna cotta piano piano in una pentola di pietra sullo “spolêrt”, la vecchia cucina friulana a legna, con polenta cotta in una vecchia padella di ghisa. La polenta mi piace moltissimo perché è tradizione contadina.
In primavera mi piacciono gli asparagi e le erbe selvatiche che ci sono qua. Questi sono i sapori del mio DNA. In inverno anche l’orzo e fagioli tiepidi con un filino d’olio e le interiora del maiale chiuse in reticelle e rosolate in padella.
I Suoi vini preferiti?
I friulani. A me piacciono le persone e i fratelli Zamò sono delle persone stupende e come anche le loro “Vigne di Zamò” a Rosazzo.
Amo anche le cantine di Ornella Venica e di Felluga. Livio Felluga è come la mia cucina e la cucina di mamma: un avanguardista.
Il fiore?
I fiori del mio giardino che hanno piantato mia madre, mia moglie, e mia sorella: le rose, i tulipani, i bulbi tutti, i narcisi, i gigli.
Un piatto che non Le piace?
Un piatto che non metto mai neanche nella mia carta: le lumache di terra.
Gli chef sono noti per avere collezioni di moto, di macchine veloci, o di orologi, e Lei?
Orologi.
Crede nei giudizi delle guide? Un consiglio che vorrebbe dare ai loro estensori?
Credo che le guide costituiscano un ottimo aiuto e credo nella professionalità di chi le fa. Quando uno decide di fare lo chef ha già deciso di fare parte di questo gioco. Sì, magari all’inizio ho subìto “lo stress da guida”: vivevo con molta ansia e tensione i giorni precedenti la loro pubblicazione, ma oggi per fortuna sono più di dieci anni che abbiamo la stella Michelin; siamo da molti anni leader della regione, e quindi viviamo la cosa in maniera diversa. Io devo fare da mangiare non per la guida, ma per l’ospite. La vera guida poi non serve a me, serve all’ospite. Non dobbiamo pensare che io debba aprire un ristorante per ottenere cappelli, forchette, o stelle. È chi si siede al mio tavolo che mi permetterà di arrivare lì, non viceversa.
Non ha mai scritto un libro di cucina?
Ancora no, ma sto scrivendo il primo adesso. Ho già in mano quasi tutte le foto. Io credo che un codice vada fatto quando una certa parte di ricerca è già stata ultimata.
Altri chef che ammira?
Sicuramente Marchesi perché lui ha cambiato ciò che si percepisce della cucina italiana. Penso al suo “raviolo aperto” oppure al riso allo zafferano. Ha aperto un’altra strada fondamentale per arrivare dove siamo oggi. Iaccarino: anche lui era all’avanguardia. Già 20 anni fa adoperava i suoi prodotti, i suoi pomodori, le sue erbe, le sue pesche… e poi la sua ospitalità. Ammiro Aimo, Bottura, Thomas Keller per il suo razionalismo e l’organizzazione, Ferran Adrià per aver riaperto i giochi sulla cucina, e René Redzepi di “Noma” a Copenhagen per l’attaccamento alla sua terra.
Se non avessero fatto gli chefs, Heinz Beck avrebbe voluto fare il pittore, Gualtiero Marchesi il pianista, Thomas Keller il short stop dei New York Yankees, Ilario Mosconi il contadino; e Lei?
Il centrocampista di una squadra di serie A.