Il suo libro su un’Italia che ama parlare di cibo.
Nata a Kiev nel 1958, Elena Koustioukovitch si è trasferita in Italia a trent’anni. Attualmente insegna all’Università di Milano. Saggista, traduttrice e agente letteraria, la sua traduzione de Il Nome della Rosa di Umberto Eco (pubblicata nel 1985) contribuì a farne un caso letterario di enorme successo in Russia e diede avvio ad una collaborazione con lo scrittore che dura ancora oggi. La Koustioukovitch è la vincitrice di numerosi premi letterari tra cui, nel 2006, il Premio Wellcome, sponsorizzato dall’Associazione Nazionale Russa dei Ristoratori. Lo stesso anno ha pubblicato il saggio intitolato Perché agli italiani piace parlare del cibo, subito diventato un bestseller sia in Russia sia in Italia: il volume ha vinto il premio Bancarella nella sezione cucina e il premio letterario Chiavari nel 2007. Tradotto in francese, tedesco, ungherese, spagnolo e inglese, nel febbraio scorso è stato pubblicato dalla casa editrice newyorkese Farrar, Straus, & Giroux e promosso negli Stati Uniti con conferenze negli istituti di cultura italiana a New York e San Francisco. La Koustioukovitch abita a Milano con suo marito italiano e i loro due figli adolescenti.
L’intervista
I nostri gusti per il cibo sono strettamente collegati all’infanzia. I suoi?
Sono legati al cibo che mancava. Non avevamo fame, ma avevamo sempre la voglia di mangiare delle cose più buone di quelle che si trovavano sul mercato. Come ben sai, la Russia è un paese dove il clima non permette di mangiare prodotti freschi tutto l’anno. Si trovano sempre soltanto patate in tutte le forme. Le patate stanno alla base di tutto il cibo russo. Poi ci sono delle conserve sotto sale, ma senza aceto. L’aceto non è usato in Russia per la mancanza d’uva. Non si produce vino e quindi non si produce neanche l’aceto. L’unico modo per conservare i cibi è metterli sotto sale. Ma che cosa? Cavoli, funghi e cetrioli. Questi ortaggi, più le patate, si trovano tutto l’inverno nelle cantine dei russi di campagna. Sono fonte di vitamina C, soprattutto i cavoli. Io sono una russa di città. Il mio cibo proveniva dai supermercati, dove mancava di solito tutto. Per le feste arrivavano i salumi e le gelatine di carne. La cucina russa popolana è molto noiosa, noiosissima. Per esempio, il pesce manca quasi totalmente perché o costa tanto o viene dai fiumi inquinati e nessuno lo vuole.
Non si deve dimenticare che io sono nata nel ’58 e cresciuta negli anni ’70 e ’80, ossia quando è entrato in crisi il sistema sovietico perché tutte le forze politiche erano ciecamente concentrate sulla produzione delle armi. Io mangiavo salumi poco interessanti, patate e tante zuppe. Zuppe e patate, patate e zuppe. Mia madre e mia nonna cucinavano sempre male perché storicamente gli intellettuali come loro avevano sempre avuto la fortuna di tenere in casa delle cuoche che poi sono sparite con la Rivoluzione. Così non c’era nessuna donna in famiglia che poteva trasmettere le tradizioni culinarie. Quando sono arrivata in Italia, ho scoperto per la prima volta cosa fosse realmente il cibo.
Perché è venuta in Italia la prima volta? Dove è andata?
Sono venuta in Italia per la prima volta invitata da Umberto Eco, perché sono la traduttrice dei suoi romanzi in lingua russa. Il mio viggio in treno da Mosca durò tre giorni; ero stanchissima, ma appena scesa sul binario ho sentito un odore di castagne che stavano arrostendo. Quest’odore significherà per sempre, per me, l’Italia.
Perché ha tradotto “Il nome della rosa” e non un altro libro?
Come ben sai, “Il nome della rosa” è un romanzo ambientato nel Medioevo, ma connesso alla realtà moderna attraverso simboli che costituiscono le chiavi per capire la letteratura e la politica attuale. Per questo motivo era proibito in Russia, anche se tutte le biblioteche importanti custodivano una copia in una stanza segreta. Per fortuna, come collaboratrice dell’Accademia delle Scienze, Reparto Letteratura, avevo una tessera che mi permetteva di entrare in queste stanze segrete. Potevo consultare i libri proibiti soltanto lì. E lì ho letto e tradotto “Il nome della rosa”.
Se ricordi, la biblioteca del monastero ne “Il nome della rosa”, aveva anch’essa una stanza segreta per nascondere i libri proibiti, quindi la mia storia è una specie di matryoshka. Mi è piaciuto moltissimo il libro. Mi sono informata e ho capito che nessuna casa editrice in Russia avrebbe avuto il coraggio di pubblicarlo. Quindi l’ho tradotto per me. Ci sono voluti due anni e, quando ho finito, per fortuna era arrivata la perestroika.
Riusciva a tradurre anche durante le ore di lavoro?
Hai fatto una domanda molto giusta. Traducevo anche durante le ore di lavoro perché avevo così poco da fare che in due o tre ore al giorno avevo fatto il mio dovere. Ero un’intellettuale del regime sovietico e il regime sovietico teneva noi intellettuali in una specie di scatola chiusa. Noi dovevamo stare al posto nostro e non protestare. Ci pagavano poco ma puntualmente ogni mese e noi dovevamo stare lì buoni e non aprire bocca. Questo era il patto. Avevo molto tempo libero: il mio orario era soltanto di mezza giornata. Potevo quindi andare in biblioteca in questo cosiddetto deposito speciale dove potevo leggere i giornali stranieri. Era una vita molto strana.
Per chi non avesse letto Suo libro, potrebbe gentilmente darci una breve spiegazione del vostro piacevole passatempo nazionale?
La mia riposta sarà un po’ generica, ma almeno esprimo quello che penso. Credo che per gli italiani sia molto importante lanciare messaggi positivi per essere simpatici, e non per essere, come in America, “cool” o in gamba, o intelligenti. Gli italiani vogliono innamorarsi del loro interlocutore e soprattutto allo stesso tempo far innamorare tutti. Per raggiungere questo scopo non c’è niente di meglio del cibo; è una strategia che vince sempre. Per esempio, ieri sono andata a Campo de’ Fiori e ho fatto una nuova amicizia con un prete parlando dei carciofi esposti sulle bancarelle. Diversamente, parlare dei soldi, come in America, è molto più complicato. Bisogna avere un interlocutore dello stesso livello intellettuale e più o meno della stessa posizione sociale – economica. Si potrebbe forse parlare di lavoro, ma no, gli italiani parlano di cibo anche al lavoro.
Quali italiani sono i più sciovinisti per quanto riguarda il cibo?
Senza dubbio i liguri. In Liguria si trovano soltanto cibi e piatti tipicamente liguri che sono, devo ammettere, fantastici. La Liguria è sciovinista, è quasi talebana per quanto riguarda il cibo. Trovi il pesto dappertutto e non sughi di pomodoro, neanche nelle mense scolastiche o nelle fabbriche. In Molise o nella Basilicata i piatti sono limitati per mancanza di richiesta, non per chiusura mentale o sciovinismo come in Liguria. In Abruzzo anche i piatti tipici sono pochi, ma il cuoco abruzzese ha la capacità di imparare qualsiasi piatto, di qualsiasi cucina. Mi hanno spiegato che il cuoco abruzzese è l’unico cuoco al mondo che sa trovare la giusta misura del sale, anche nei piatti che lui non conosce. In Abruzzo il cuoco dosa gli ingredienti in maniera corretta, cosicché i cuochi abruzzesi si trovano su tutte le navi da crociera, o in giro per il mondo.
Il cibo di quale regione le piace di più?
Della Sicilia e del Piemonte. Amo anche il cibo della Puglia ma, secondo me, non esiste la cucina pugliese: esiste il cibo pugliese. La Puglia è il paradiso degli ingredienti: l’olio d’oliva, il formaggio, le verdure, il pesce… ma il cuoco non c’è. In Sicilia e in Piemonte il cuoco (e non soltanto gli ingredienti) sta al centro.
Gli chef che ammira?
Mi è molto simpatico Gualtiero Marchesi. È un gran signore. M’incuriosisce Vissani perché ha molta fantasia, ma non sono un “food critic”. Non scrivo recensioni di ristoranti.