Quando il miglior chef di Spagna è donna…
È la storia di una favola quella del Sant Pau, fra i primi ristoranti di Spagna e del mondo. Perché la toque calca i capelli sbarazzini di Carme Ruscalleda, una che si è formata con i piatti da asporto di una gastronomia di paese e poi ha spiccato il volo. Autodidatta totale, insomma: il lato femminile di una cucina ipertecnica, gagliarda, perfino un po’ sbruffona. Tecnoemozionale, post-post moderna, nuova nueva nouvelle cuisine, lambiccano le toques in pantaloni. Mentre lei con il candore di sempre persegue la sua “cucina del cuore”, flusso ossigenante dove le sistole sono il prodotto e le diastole l’immaginazione. Una naturalezza vera fra pratini sintetici, alghe plastificate e drugs addiction da polverine bianche.
Unica donna sul palco di San Sebastian, dove ha parlato del suo innamoramento per il Giappone (“ho dovuto fare violenza su me stessa, per non convertirmi da spagnola in giapponese: per me quella è la purezza gustativa, fondata sull’acqua piuttosto che sull’olio”), Carme fa una cucina risolutamente femmina: declinata in prima persona plurale (“noi” e non “io”, la Catalogna è in primo piano) e paziente come la nave di Argo, ricostruita da Teseo con pezzi nuovi nella sua forma famigliare, conosciuta eppure sorprendente da un lato all’altro della traversata.
E saranno sempre di più i fortunati che – in giro per il mondo – potranno assaporare tutto questo, e “capire”. Dopo il successo dei locali a Sant Pol de Mar e Tokyo (cinque stelle Michelin), da pochi mesi Carme Ruscalleda delizia il centro di Barcellona con il suo ristorante “Moments”, aperto all’interno del nuovissimo Hotel Mandarin Oriental a conferma della recente tendenza di aprire ristoranti di qualità all’interno di grandi strutture alberghiere.
“Moments” propone una cucina con impronta fortemente catalana attenta alle tradizioni, all’autenticità e alle origini, ma senza tralasciare un tocco di avanguardia e creatività.
“L’importante” spiega Carme “è che la filosofia dei miei ristoranti sia la stessa: piatti sani, ben elaborati e capaci di esaltare la qualità degli alimenti. Per questo non proporremo mai una cucina internazionale, priva di personalità: la stagionalità e la vicinanza tra il luogo d’origine del prodotto e la tavola sono fondamentali.”
L’INTERVISTA
La passione per la cucina è sempre stata presente nella tua vita?
No, non esattamente. I ricordi della mia infanzia mi riportano alla vecchia cucina in cui preparavo la cena per tutta la famiglia che era in campagna a lavorare: la mia era una famiglia di agricoltori e commercianti. Aiutavo in tutto quel che potevo. Col tempo, ho sviluppato abilità e tecnica. Ma non ho mai pensato che avrei utilizzato queste doti in futuro. Al contrario: frequentai corsi per commercialista e ragioniera, ma volevo intraprendere una carriera con indirizzo artistico. Si trattava di una scelta estranea alla cultura della mia famiglia, oltre che fortemente osteggiata dalla scuola religiosa che avevo frequentato.
I miei genitori però mi offrirono un’alternativa intelligente: trasformare la nostra piccola bottega rustica, nella quale si vendeva dal mangime per animali al latte, conigli, pollame o il vino della vigna, in qualcosa di più moderno. Fu così che imparai le tecniche di salumeria sull’utilizzo migliore della carne di maiale. Ero piuttosto creativa, anche grazie alla possibilità di parlare con il pubblico, di ascoltarlo e di creare con loro quella giusta complicità. Così – fra salsicce bianche, nere, piccanti, con il formaggio, con la frutta secca – ho iniziato il mio bel viaggio nella cucina.
E’ giusto dare dei limiti alla fantasia di uno chef?
Penso che la fantasia sia tale proprio perché non conosce limiti a priori. Vale anche per quella dello chef, naturalmente. Vietato vietare, come si suol dire: la cucina è progredita proprio perché sono stati rimossi tanti vincoli, giorno dopo giorno. Io bado all’essenza delle cose: se il piatto è equilibrato in tutti gli ingredienti che lo compongono, sarà certamente digeribile. Una cucina è buona perché il giorno dopo stai bene. Poi, certo, bisogna avere cura di altri fattori: anche l’estetica vuole la sua parte perché la vista è il primo senso. Ovviamente bisogna che il piatto abbia un buon odore, ci suggerisca che è appetitoso. Ma senza limiti predefiniti, il solo limite è l’obiettivo che sia commestibile. E’ un’arte, un’arte per mangiare; però io non ho mai pensato “questo è vietato”, si può argomentare pro o contro ma non credo nei limiti.
Se dovesse lavorare con un aspirante chef quale sarebbero i consigli che gli darebbe?
Io lavoro con 18 cuochi, tutti formati nelle scuole. Tutti loro hanno scelto la professione liberamente. Tanti di loro hanno l’idea di aprire un loro ristorante. Il mio consiglio sarebbe: “Acquista il prodotto migliore che puoi permetterti, una volta che hai questo prodotto, abbi cura di lui, impara anche a conservarlo bene nello stock. Quando hai veramente deciso, cucinalo. Non distrarti, perché non perda niente del suo carattere naturale; e soprattutto, metti la tua fantasia, il tuo gioco, la tua idea. Fallo diverso, risveglia l’interesse delle persone, se vuoi cucinare un calamaro, cucinalo con fantasia. Questo vuol dire che, se il calamaro sa di calamaro, la persona che lo mangia si innamora di nuovo del prodotto.
Come nasce l’ispirazione per creare un nuovo piatto? E’ vero che dietro ogni nuova proposta c’è una cura maniacale e mesi di prove?
Più che ai singoli piatti, mi viene naturale pensare in termini di menu. Creare un menù è qualcosa di simile ad una sinfonia per le stagioni che arrivano. Per esempio, in inverno arriva Natale, fa freddo, magari viene la neve e ci sarà la caccia: la cucina deve essere più calda, avvolgente. E’ come scrivere una sceneggiatura, un menù esclusivamente per l’inverno. Creo come un concerto di prodotti, che si muovono insieme, coppie di sapori che funzionano. Non esiste una dottrina o un dogma di fede. Dietro cerco con un grande studio quell’equilibrio di sapori, l’estetica e il cromatismo di ciascuno piatto. Ma non è vera maniacalità, piuttosto passione di studio e attesa per la risposta del pubblico. E l’opera è sempre in movimento, nulla resta costante per sempre. Rifinire il piatto è come un’opera pittorica, come un musical, c’è sempre quell’ultimo ritocco da fare che non lo rende finito. Alla cucina succede lo stesso, quando una ricetta è finita e il piatto entra nella sala, siamo convinti di aver dato il meglio di noi stessi. Ma un momento dopo torniamo a pensare a come perfezionare ulteriormente quella ricetta.
Il rapporto con il famoso “territorio” sembra ormai indispensabile. Ma non c’è il rischio di proporre una cucina noiosa?
No, mai. E noi siamo un esempio. Noi siamo sempre nello stesso posto, quindi abbiamo sempre gli stessi prodotti, non ci muoviamo, non ce ne andiamo di qua e di là. Ciò che rende i nostri piatti diversi è la volontà di farli diversi, sempre con gli stessi prodotti, ma con mani diverse. Io un calamaro lo presento in diverse maniere, con diversi elementi. Un prodotto può essere presentato ogni anno, se hai la capacità e ci metti la volontà di volerlo fare. Immagino pure che sarebbe molto noioso dover tornare a rifare sempre lo stesso modello.
La ristorazione italiana, il suo maggior pregio ed il suo peggiore difetto…
Penso che siamo tutti fratelli, una visione gustativa e ludica molto simile, ci piacciono le stagioni, ci piace la vita fuori, ci piace criticare e concorrere per riuscire a fare meglio del collega il riso. Siamo molto simili. Il nostro lato peggiore lo mostriamo all’esterno: com’è possibile che con tanti bei prodotti, tanta cultura dietro di noi, nelle zone più frequentate dai turisti ci siano menù turistici così orribili? E’ come una foto disastrosa, una immagine terribile e scopro che questo non succede altrove. A Tokyo posso mangiare in un posto molto umile e comunque non mi darebbero niente di malfatto o in cattivo stato. Sono convinta che nei posti in cui passano migliaia di persone per turismo si fanno delle cose infami, ma possiamo farlo tutti molto meglio.
Cosa ha rappresentato ricevere nel 2006 il premio come miglior chef di Spagna?
Intanto ho apprezzato il coraggio, per una vetrina maschile, di premiare una cucina diretta da una donna. Io non mi sono mai sentita inferiore ai miei colleghi uomini, né mi sono mai sentita emarginata da nessuno, perché io sono stata la prima a non emarginarmi. Ho fatto le loro stesse fatiche, ho tenuto lo stesso rigore, ho provato la stessa sofferenza, ho mantenuto la stessa volontà di riuscire, per questo sono piena di forza e non abbasserò mai la guardia. Per dare questo messaggio ad altre donne che hanno scelto liberamente questa professione, e dir loro che se te lo sei preposto, puoi.
Effettivamente può sembrare un paradosso. La cucina è considerato un mondo tipicamente femminile, eppure si parla sempre di uomini chef. Perché secondo lei?
La situazione evolve, a piccoli passi. Nei primi congressi gastronomici a cui ho partecipato vedevo al massimo una o due donne; nell’ultimo congresso, fatto a Soria un anno fa, nella lista di convocazione c’erano molte rappresentanti femminili importanti. Stiamo avanzando a piccoli passi, ma molto solidi. Oltre ad una certa evoluzione culturale, credo che anche la tecnologia abbia facilitato questi progressi; prima per gestire una cucina professionale era necessario avere una vera forza fisica. Per una donna alcune azioni sarebbero state impensabili, e si sarebbe ridotta solo a un motivo di scherno o di facile ironia. Ora invece anche i forni sono fatti ad una misura standard abbordabile, e questo ha molto ridotto la necessità di forza fisica. Oggi contano le idee che si mettono in campo, l’immaginazione, la capacità, il lavoro. Su questo terreno è più facile eliminare le differenze tra uomo e donna.
Quali sono le difficoltà che ha incontrato nel suo lavoro?
Le difficoltà arrivano ogni giorno. Basta pensare a un temporale che all’ultimo ti rovina il prodotto che da mesi aspettavi che arrivasse sul mercato; o che si ammali qualcuno del tuo personale, e non puoi più contare su di lui; la stanchezza.
Per fortuna, la maggior parte delle difficoltà possiamo superarle con la forza di volontà. La forza mentale è un ingrediente indispensabile. Questa è una carriera piena di ostacoli, se alla prima difficoltà ti abbatti, meglio chiudere subito. E’ pure importante mantenere salda la capacità di concentrazione: bisogna avere uno spirito perfezionista e tenere desta l’immaginazione, perché sappiamo già che altre difficoltà arriveranno l’indomani. Credo che questa sia una delle professioni più complesse che esistono, per una ragione fondamentale: il prodotto che lavoriamo è naturale, quindi ogni volta è nuovo e diverso dalla precedente.
Anche i clienti che si siedono al tavolo ogni giorno sono diversi, questa è una sfida continua, dobbiamo usare una continua immaginazione, non abbassare mai la guardia. E’ duro e ce la puoi fare solo perchè sei innamorato della tua professione, così non ti puoi stancare.
Abbiamo letto che chi è stato nel suo ristorante lo ha definito un posto magico e che la sua cucina è come Lei: femmina, evolutiva, battagliera, affascinante, una vera forza della natura. Lei si ritrova in queste affermazioni?
Sì, mi piace questa definizione! E’ vero, mi identifico con la verità e l’autenticità. Io faccio una cucina che si spoglia, una cucina nuda, una cucina che cerca di abbellirsi con naturalezza, è un tipo di cucina molto comprensibile, dove si sente il profumo, e puoi capirla anche guardandola per la prima volta.
E finisci per capire tutto quando la assapori.