“La precisione, per gli antichi Egizi, era simboleggiata da una piuma che serviva da peso sul piatto della bilancia dove si pesano le anime.
Quella piuma leggera aveva nome Maat, dea della bilancia. Il geroglifico di Maat indicava anche l’unità di lunghezza, i 33 centimetri del mattone unitario, e anche il tono fondamentale del flauto”… Comincia così il capitolo delle “Lezioni Americane” di Italo Calvino dedicato all’Esattezza, valore principe su cui il grande romanziere scommetteva per il nostro millennio. Di fronte all’usura del linguaggio, un’esortazione alla scelta accorta dei mezzi di espressione, al nitore strutturale e all’icasticità. Con la possibilità di avvalersi del cristallo o della fiamma, cioè di tecnica versus istinto, pulsione geometrizzante ovvero inquieta vibrazione interiore.
Un incipit corposo e impegnativo per dire che la cucina di Alberto Faccani va rubricata sotto il segno di Maat, nelle sue sfaccettature più limpidamente cristalline: tale è la pulsione verso la precisione che la ispira. Nel taglio infinitesimale degli ingredienti, che sostituiscono i micron alle elaborazioni intrusive; nelle tecniche di cottura ineccepibili, che privilegiano non a caso l’accoppiata roner-sottovuoto; come nel bilanciamento della costruzione del piatto, dove gli aromi e gli stessi profumi sembrano passati per i piattini della dea. Un petalo, uno stelo, un granello di condimento piazzati lungo coordinate ortogonali.
In questa insofferenza per l’approssimazione, forse, si può ravvisare il background ragionieristico di Alberto, rampollo di una famiglia bene, fulminato dalla vocazione. Che resta pur sempre bravo a far di conti, se è vero che, in controtendenza totale, la sua Magnolia quest’anno ha segnato un +20%, catalizzando un pubblico di foodies e gourmet, ma anche famigliole con prole al seguito: quando si dice fare cultura del cibo. Un po’ di esattezza avanza per l’orologeria dell’organizzazione, che permette di servire menu degustazione stellati Michelin alla modica cifra di 50 euro.
Nella luminosa villetta cesenaticense vicino al mare, curata personalmente dallo chef, che è anche un po’ arredatore, pittore e sommelier, non è di casa un’avanguardia con le spade sguainate e le lance in resta, estranea al temperamento di Alberto, al quale prima ancora che il piacere e il godimento, sta a cuore la piacevolezza. Nel pantheon Ferran Adrià (“ci sono andato ogni anno per continuare a formarmi”) e il nostro Massimiliano Alajmo, maestro di italianità e scienziato del prodotto, il microscopio ben puntato sull’essenza. In un mappamondo gastronomico spazzato dalla bufera vichinga (“cook it raw”, recita il grido di guerra), la barra del timone è tenuta ben dritta fra il crudo e il cotto, sponde fra cui piatti e forchette tessono fittamente la spola.
Nel menu dominano i pesci nobili in arrivo da tutta Italia, con una puntata fuori programma in Spagna per la trippa di baccalà (“personalmente amo molto il pesce povero, cui ho dedicato a suo tempo un menu chiamato ‘azzurro’, che ho dovuto togliere perché non vendeva”). Ed ecco il ricamo fiorito sul gambero rosso al vapore, con rapa rossa cruda a julienne, maionese al corallo e corallo polverizzato, niente da invidiare alla sapida pungenza della bottarga; la capasanta con tuberi e petali, un mari e monti con i tartufi dove il fiore, con la sua testura, fornisce quasi un trait d’union olfattivo ai due universi; i passatelli alla zucca con lumachine di mare, spinti al massimo della dolcezza e serviti con la cloche come tutti i primi, per ragioni termiche e anche perché il vapore non trova croccantezze da inficiare; il sanpietro convertito in mattonella di prato per asparagi, fiori e fresche frasche che trovano i loro picchi nelle scorzette candite; il dessert sulle sfumature dell’arancione, dalla carota allo zafferano, agli agrumi, alla ricerca del principio cromatico del gusto: betacarotene in tutti i suoi stati, dove il cuoco sembra lavorare di mortaio e alambicchi come un coloriere alchimista verso cromatografie quintessenziali.
Mentre è un inno alla natura la finta noce di foie gras su letto di vere noci sbriciolate e dadolata di gelatina di nocino, dove il classico abbinamento con la frutta secca è rivitalizzato dalla virata verso l’amaro e sferzato dall’uso di noci non pelate, i cui tannini scartavetrano sapientemente il palato dagli eccessi untuosi. Un frammento di paesaggio autunnale dalla grazia quasi femminile, a riprendere il fil rouge, tuttora pendulo, della frutta secca.
L’amore per il crudo e la natura, prima che tratti del tuo stile, sono parole d’ordine della cucina contemporanea.
Sì, soprattutto per l’influenza della cultura nordica, che è molto spoglia. Prendi il Noma, che è così nudo, fa pensare all’estetica Ikea con tutto quel legno. È una cucina molto primitiva, asciutta, ancorata al sapore originario dell’ingrediente, senza orpelli. Al momento forse è la più gettonata, un po’ una moda. Ne ho tratto ispirazione per qualche piatto, ma non è la mia filosofia. Io penso a un gusto made in Italy un po’ più cucinato.
Fra i tratti ricorrenti della tua cucina, l’amore per la frutta secca, i fiori, la nota agrumata. In generale l’aspetto olfattivo spicca. Non a caso hai intitolato il tuo ristorante alla Magnolia, un albero che ha occhieggiato dalle finestre delle tue case di famiglia.
Sì, l’olfatto è il senso dominante. Mi piace immaginare alcuni dei miei piatti come giardini fioriti incolti, dove qua e là sbucano erbe e petali di fiori. Un omaggio alla natura e ai colori. Penso alle noci di cappesante alla piastra, piselli, fiori e radici. I molluschi sono piastrati violentemente e accompagnati da un patè di piselli, un’insalata di radici e tuberi quali rape rosse, rape gialle, raperonzolo, ravanelli, tartufo nero, topinambur, daikon. Il tutto è condito da viole, germogli di rapa e aceto di vino rosso.
Come vedi la situazione attuale dell’alta cucina? Stiamo andando troppo indietro? Si può passare dalla quarta in retromarcia senza il rischio di spaccare tutto?
Al congresso dei JR c’era un clima di ripensamento, tutti si chiedevano cosa cambiare per fare quadrare i conti. C’era chi diceva di cuocere pesci più piccoli con la lisca, chi di recuperare il servizio al guéridon… Ma non si può andare troppo indietro perché il cliente non capirebbe, dopo decenni di martellamento sulla creatività si sentirebbe preso in giro. Il culto del prodotto e del territorio si sta facendo oppressivo ma le radici non sono immobili, sotto terra continuano a viaggiare. Io per esempio annovero mia nonna e mia mamma fra le fonti della mia cucina, come imprinting gustativo. Ma la tradizione riesce anche a sorprendermi. Prendiamo i fiori: da queste parti in primavera era consuetudine preparare un’insalatina di viole con i raperonzoli. Niente di rivoluzionario. Basta fare ricerca nel passato e si ottiene futuro.
Tu rappresenti un caso felice: hai creduto nel tuo talento, hai fondato un ristorante e sei in crescita, contrariamente ai piagnistei che ci circondano. Qual è la tua ricetta per uscire dalla crisi?
Sicuramente innovare. Da bravo ragioniere, so che investendo i miei profitti, riesco a guadagnarci. Prendiamo il locale: ogni anno lo cambio. All’inizio era arancione, adesso è bianco. Perché avevo bisogno di più luce. I quadri alle pareti sono miei, se li osservi c’è pochissimo nero e molti spazi bianchi, come nell’impiattato, perché l’occhio ha bisogno di una via di fuga. Un altro esempio sono le nuove Calandre: anziché fermarsi o abbassare i prezzi, in un momento così difficile hanno scelto di rinnovare la sfida, rivoluzionando il locale. Massimiliano Alajmo per me è un punto di riferimento. Batte strade sconosciute come se le avesse già percorse. È un anticipatore.
Come riesci a contenere i prezzi, tu che sei ragioniere? Applichi tecniche particolari di food cost?
Certo, il cuoco è e deve essere un economo. Lo spreco è nemico, occorre rispetto per ciò che si manipola. Saper fare la spesa è una premessa indispensabile per la realizzazione di un ottimo piatto, la soddisfazione del cliente e il guadagno finale. Se un piatto comporta forti sprechi, fatalmente sono costretto a toglierlo.
Hai seguito tecniche particolari per fidelizzare la tua clientela, ad esempio nella selezione dei piatti?
Tendo a cambiare il menu spesso, forse non mi godo certi piatti fino in fondo, ma stando sempre in cucina a fare le stesse cose ci si annoia… Ora i piatti che si vendono di più fanno capolino quasi tutto l’anno. Ogni mese controllo ciò che ho venduto e redigo una classifica, gli ultimi retrocedono lasciando spazio alle novità e cosi via.
Hai mai avuto l’impressione che la clientela potesse limitare la tua creatività?
No, sono io che la limito. Vorrei creare un percorso nella mia cucina, un passo dopo l’altro. Forse adesso non è il momento giusto per spingere sull’acceleratore. Devo acquisire maggiore cultura e conoscenza del prodotto per osare di più. Adesso sono ancora all’inizio.