TANTE STORIE PER UN PIATTO DI PASTA
Dal chicco alla farina, dalla farina alla pasta e dalla mano alla trafila. Tra fresche, ripiene e asciutte, le varietà di paste alimentari catalogate in Italia sono circa 1600, e questo primo elementare percorso non basterebbe certo a definirle tutte, giacché il racconto della pasta, della sua origine e della sua evoluzione, è naturalmente più ricco e articolato. Ma procediamo per gradi.
DAL GRANO
Nel cammino alimentare dell’umanità, dalla raccolta e dalla coltivazione delle graminacee, una pratica databile intorno ai 10.000 anni fa, arrivando ai primi impasti di acqua e farina messi a cuocere su pietre roventi, ancora per molto tempo pane e pasta resteranno perlopiù indistinti. Inoltre, prima di ricavarne una farina, il chicco continuerà ad essere consumato tal quale, e a testimoniarlo sopravvivono ancora oggi preparazioni salate e dolci come la cuccìa siciliana, il grano condito lucano o la colva pugliese; parente stretta quest’ultima della kolliva greca, un dolce nato per la commemorazione dei defunti, dolcificato con vin cotto e condito con frutta secca e spezie.
Ripartendo dal chicco pestato, in progressivo avvicinamento alla nostra pasta secca, fresca e ripiena, ecco la semola battuta pugliese, la frascatula siciliana, la fregula sarda e via via le tante varietà regionali di pasta a granelli, frescarelli, brufadei, granetti, pasta rasa (o ragia), cous cous (trapanese, livornese, sardo), per non citarne che alcune. Finalmente, se dalla farina di grano tenero prende forma la prima pasta fresca e, in tutte le sue diverse declinazioni quella ripiena, dalla farina di grano duro arriverà la pasta asciutta.
La pasta fresca nasce modellando l’impasto a misura della mano, passando dalle “manate” alle quattro dita: coccetelle, cortecce (o quattro dita napoletane), proseguendo con gli strascinati, i cavatelli, capunti, cecatielli, malloreddus (gnocchetti sardi), minnuicchie, minchiarelli, chiancarelle, per finire con l’uso di un solo dito: le orecchiette baresi. La mano si attrezza poi con strumenti via via più ‘sofisticati’, dal coltello al ferro da calza, dal matterello ai dischi tagliapasta, dalla chitarra alle macchinette per tirare la sfoglia, e così alle paste cavate s’affiancano quelle arricciate: le trofie, trofiette (Liguria), strichetti, farfalle, farfalline ecc. e le paste fresche piatte: le sagne calabresi e le lasagne (emiliana e napoletana), i nastri, i nastroni e le pappardelle, e ancora i manfricoli umbri, trenette e linguine, fettuccine, tagliatelle, tagliolini, tajarin, e l’elenco potrebbe continuare.
LE PASTE RIPIENE
Anche se avvicinabile alla nostra lasagna, la làgana romana, dal greco làganon (V-IV sec a.C.), citata già in Cicerone e Orazio, si presenta come una sottile sfoglia d’impasto d’acqua e farina che ritroviamo anche nel De re coquinaria di Apicio (230 d.C.), testo di riferimento per la cucina della Roma antica, dove viene utilizzata per confezionare sformati, timballi o torte farcite. Viene facile pensare a queste torte di carne, verdure e formaggio, come antesignane della pasta ripiena. Non a caso, nel poema eroicomico Il Morgante di Luigi Pulci, Margutte, scudiero laido e furbesco del protagonista, proclama: Io credo nella torta e nel tortello: l’una è la madre e l’altro il suo figliuolo.
Ma di paste ripiene se ne mangiavano ben prima che se ne parlasse nel quattrocentesco poema del Pulci. Il riferimento è alla cucina arabo-persiana alto medievale, passata nei ricettari della corte di Federico II di Svevia e confluiti poi nel Liber de coquina, redatto in epoca angioina fra il 1285 ed il 1309. Il passaggio di questi usi di cucina dall’area musulmana a quella cristiana avviene, oltre a guerre sante, invasioni e dominazioni, anche grazie all’intensa attività di traduzione dall’arabo in latino svolta da monaci e da studiosi come Giambonino da Cremona, che sul finire del XIII secolo, traducendo dall’arabo una monumentale enciclopedia scritta a Bagdad dal medico Ibn Jazla nella seconda metà dell’XI secolo, ne fa un estratto nel suo Liber de ferculis et condimentis. Qui troviamo accomunati i calzoni ripieni e i ravioli, nonché la descrizione del sambusuch, una pasta di forma triangolare destinata ad essere farcita con un ripieno di carne per poi finire lessata o fritta. Il sambusuch e il sambusek, tuttora una specialità della cucina egiziana, possono considerarsi i progenitori arabo-persiani dei nostri ravioli o, come con buone ragioni qualcuno è arrivato a sostenere, dei marubini cremonesi.
Lungo sarebbe qui seguire, dai taccuini della salute medievali ai ricettari cinquecenteschi, per arrivare al celeberrimo manuale dell’Artusi, la fortuna della pasta ripiena in tutte le sue manifestazioni regionali: tortelli, ravioli, agnoli lombardi e agnolot piemontesi, offelle triestine, pansooti, caramelle, fagottini, lunette, mezzelune, pansotti, fino ai ravioli napoletani e calabresi e ai culurgiones sardi. Il passaggio successivo è quello relativo alla pasta asciutta che ci preme trattare.
Dal momento che una cultura alimentare legata ai cicli agrari e alle stagioni spinge di necessità alla creazione di tecniche per la conservazione del cibo, come conservare un prodotto deperibile come la pasta fresca se non essiccandola?
Qui la storia conferma ancora una volta quanto la cucina resti il luogo per eccellenza della contaminazione e dello scambio. Perché migrando da un paese ad un altro, da un continente a un altro, la cucina viaggia, viaggia con gli uomini e con questi viaggiano i prodotti alimentari, le pratiche per manipolarli e le maniere di consumarli. Con i sapori viaggiano i saperi, con i prodotti i costumi alimentari, gli usi di cucina e le maniere della tavola. È quello che gli studiosi hanno definito movimento geoculinario. Nel nostro caso torniamo a parlare dell’importante ruolo svolto dall’impero islamico che nella sua massima espansione, valicati i Pirenei nel 759, si spinge fin sotto la Grande Muraglia cinese dove viene fermato nel 751. Il nuovo insieme geopolitico, che va dall’India alla Spagna, mette per la prima volta in comunicazione il Levante con l’Oriente mediterraneo, creando così le condizioni per una circolazione di prodotti, tecniche, piante e nuovi gusti culinari.
LA GENESI DELLA PASTASCIUTTA
Questa riflessione è per motivare come, anche per la pasta asciutta, a parlarne per primi sono testi arabi. Dal contatto con la Cina gli arabi avevano riportato la tecnica per produrre una pasta alimentare secca, che i cinesi però, non conoscendo ancora il frumento, ottenevano lavorando una fecola ricavata dal midollo di una palma, la sagopalma. Come ci ricorderà poi al suo rientro dalla Cina nel 1295 Marco Polo ne Il Milione, parlando di lasagne fatte con farina di alberi, che sono molto buone.
La prima descrizione della pasta secca, denominata itryya (striscia), è nel libro del lessicografo siriano Bar Alì del IX secolo. L’itrija – dice Bar Ali – è un manufatto di semola che viene preparato come il tessuto del fabbricante di stuoie e che viene poi seccato e cotto. La pasta secca, in formati diversi, si ritroverà ancora nei secoli successivi nei manoscritti di medici e filosofi egiziani e persiani con relative ricette circa la preparazione e prescrizioni per il suo consumo. Non solo, ma nella cucina araba e poi arabico-andalusa, sono già presenti i diversi formati con una loro precisa denominazione: fidāwish per la pasta corta, simile a piccole trofie, rishta per tagliatelle o tonnarelli, tiltīn per la pasta a quadrucci.
In Italia, a conoscerla per prima è la Sicilia durante la dominazione araba (827-1091); da qui l’appellativo “mangiamaccheroni” affibbiato ai siciliani prima che passasse ai napoletani, che almeno fino ai primi del Seicento rimarranno dei “mangiafoglie”.
La produzione di pasta alimentare secca sull’isola doveva essere già diffusa da tempo se nel 1154, nel cosiddetto Libro di Ruggero, dedicato al re Ruggero II il normanno, il suo curatore, il geografo arabo-siculo Al-Idrisi, dava notizia che a una giornata di cammino da Palermo, a ponente di Termini c’è un abitato di nome Trabia: [ricco] d’acque perenni che [fanno muovere] parecchi mulini. La Trabia ha una pianura e dei vasti poderi nei quali si fabbrica tanta [copia di] paste da esportarne in tutte le parti, [specialmente] in Calabria e in altri paesi di Musulmani e Cristiani: che se ne spediscono moltissimi carichi di navi…
Al-Idrisi parla, evidentemente, della prima manifattura di pasta secca prodotta per l’esportazione. E che questo metodo di lavorare la pasta, prima di risalire la penisola per le impervie vie di terra, sbarcasse a Genova, lo testimonia il più volte citato rogito genovese del 1279, dove il milite Ponzio Bastone lascia in eredità barixella una plena de maccaronis.
Maccheroni, eccoci approdati ad un termine che per lungo tempo è stato usato per indicare genericamente la pasta o gli gnocchi freschi in particolare, quelli impastati con pane bianco grattato, uova e farina e passati sulla grattugia. Bisognerà aspettare il Settecento perché il maccherone passi a identificare propriamente le paste lunghe trafilate. Un’operazione che avviene a Napoli, dove il ‘maccarone’ diventa il cibo quotidiano della plebe partenopea, cotto per le strade in grandi pentoloni e da consumare con le mani, condito con formaggio grattugiato e pepe. Tuttavia, prima della sua consacrazione ad alimento popolare, il maccherone è presente nei ricettari di corte e borghesi. Nel Libro de arte coquinaria di Maestro Martino da Como (1450 ca.) troviamo maccaroni siciliani pertusati, si dice, con un ferro lungo un palmo […] e sottile quanto uno spago, che seccati al sole dureranno 2 o 3 anni. Il tempo di cottura consigliato è di due ore, in brodo di carne, e il condimento è cacio, burro e spezie dolci. Ancora, nel 1474, Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, nel suo De honesta voluptate et valetudine, cita i vermicelli, come piccoli vermi da seccare al sole che dureranno, ci assicura, per due anni e più.
Intanto, già nel 1348, Giovanni Boccaccio aveva celebrato i maccheroni nel raccontare come nel leggendario paese di Bengodi eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva. Ma è nel Cinquecento che il maccherone fa il suo ingresso nella letteratura, arrivando a definire un genere burlesco, il genere maccheronico. Autore di riferimento è Merlin Cocai, al secolo Teofilo Folengo, con le sue Maccheronee e il Baldus, poema eroicomico dove sono riportate venti ricette, doctrina cosinandi viginti, rappresentative dell’arte “leccatoria” del tempo.
Sempre del genere burlesco è il poemetto di Francesco de Lemene (1654) Della discendenza e nobiltà de’ maccaroni, dove Napoli e Bergamo si contendono la primogenitura dei maccheroni. I campioni delle due parti, Zaccagnin e Coviello, si misureranno armati di forchetta a chi ne divorerà di più. L’importanza del poemetto sta nel primo tentativo di classificazione dei diversi formati della pasta con la descrizione di una fantasiosa genealogia: Farina sia nata Pasta: madre prolifica che in stato vedovile ebbe un figlio naturale Gnocco chiamato (finito male per i suoi pessimi costumi); ma dai suoi tre mariti Cannella (mattarello) Gramola e Torchio ella aveva già avuto altri figli. Da Cannella ella aveva generato Polenta e Lasagna; madre a sua volta quest’ultima di Torta e Raviolo. Ma è da Torchio che Pasta doveva generare il fiore della sua stirpe, Maccarone, da cui discende Fidelino, padre di Pestarino.
Non c’è nome illustre della letteratura e dell’arte che non sia misurato con un fumante piatto di maccheroni, fra i tanti ricordiamo Giacomo Casanova che a Chioggia, nel 1734, dopo averne fatto una gran mangiata, dedica un sonetto in onore dei maccheroni e viene subito incoronato Principe dei Maccheroni! Un altro appassionato divoratore di maccheroni fu Gioacchino Rossini. Di lui si racconta che, chiuso in una stanza del palazzo del suo impresario Barbaja, in un solo giorno componesse l’ouverture dell’Otello nutrendo il suo estro creativo con gran piatti di maccheroni che si faceva mandare espressamente da Napoli. Noto gourmand, e cuoco dilettante, Rossini, nel dare la ricetta dei maccheroni di cui andava famoso, non mancava di raccomandare: Perché i maccheroni riescano appetitosi occorre buona pasta, ottimo burro, salsa di pomodoro e parmigiano eccellenti, e una persona intelligente che cuocia, condisca e serva.
Nel corso dell’Ottocento la produzione di pasta alimentare in Italia si concentra a Napoli. Nel 1833 Ferdinando II di Borbone promuove la costruzione del primo moderno pastificio meccanizzando l’operazione dell’impasto che fino ad allora veniva eseguita con i piedi. Grazie al clima favorevole all’essiccazione, Portici, Torre del Greco, Torre Annunziata e Gragnano diventano importanti centri di produzione. Nel 1856, alla mostra industriale di Parigi è Napoli ad aggiudicarsi il primo premio internazionale per la produzione di pasta. La pasta ormai viene riconosciuta come un patrimonio italiano, se già alla fine del Settecento, Thomas Jefferson, non ancora presidente degli Stati Uniti, riesce a procurarsi e ad inviare nel suo paese una macchina, completa di torchio e trafile, per fabbricarla.
Non possiamo parlare di pasta asciutta senza ricordare il suo incontro con il pomodoro, meglio, con la ‘pommarola’, il sugo di pomodoro che in Toscana ancora scempiano in ‘pomarola’. E seppure questo dimostrerebbe quanto avrebbe tardato a risalire a nord il tipico condimento della pasta, la prima “salsa di pomi d’oro”, con olio, pepe, aglio trito e mentuccia di campagna, la ritroviamo ne Il panunto toscano di Francesco Gaudenzio nel 1705. Qui ci sono anche le minestre di vermicelli, di maccheroncini di Sicilia e di maccheroni grossi tondi, per i quali si consigliano: 2 ore di cottura, un’ora stagionati al caldo, conditi con cacio e provatura fresca o secca e lasciati ancora stagionare per qualche tempo. Ma a celebrare il matrimonio fra pasta e sugo di pomodoro è il napoletano Ippolito Cavalcanti Duca di Buonvicino nella V edizione del suo trattato La Cucina teorico-pratica del 1847. Qui, oltre ai maccheroni alla napoletana, maccheroni imbottiti, zuppa di maccheroni e timpàno di maccheroni, compaiono i vermicelli con purè di pomidoro e vongole e infine un timpàno di vermicelli crudi con li pomidoro.
Nel corso del XX secolo la pasta spodesta al ‘consumato’, alla minestra o passato serviti in apertura del pranzo borghese, il suo ruolo, e i ricettari, le rubriche dedicate alla cucina sugli almanacchi e sui periodici sono sempre più attenti a registrare ricette regionali di pasta. Nell’edizione del 1907 de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, accanto ai maccheroni alla napoletana troviamo dei curiosi spaghetti alla quaresima, romagnoli, conditi con un pesto di noci, pangrattato, zucchero a velo, odori di spezie, olio e pepe.
LE ALTERNE FORTUNE DELLA PASTA
Il successo, o la notorietà, della pasta valica le frontiere e non risparmia neanche Paesi gelosi della propria tradizione culinaria come la Francia o mostri sacri della cucina come Auguste Escoffier. Nella Guide Culinaire del 1903, e ancora nella Ma Cuisine del 1934, il grande chef francese dà la sua interpretazione dei maccheroni al sugo, dei maccheroni alla napoletana, al gratin, alla panna gratinati ai tartufi e all’italiana, quest’ultima parecchio laboriosa: saltati in padella con pepe e noce moscata e legati con metà gruyère e parmigiano grattugiato, burro e nuovamente ripassati nel burro e disposti in un timballo. E ci risparmiamo i maccheroni alla milanese e quelli alla siciliana. Ad ogni buon conto, la pasta alimentare, insieme alle verdure, funghi, olive, tartufi, uova e pesce di piccola taglia, viene accolta, nella cucina internazionale codificata da Escoffier, come garniture, guarnizione, che potremmo assimilare al contorno o alla decorazione.
È il 28 dicembre 1930 quando, su “La Gazzetta del Popolo” di Torino, il fondatore del Futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, lancia il suo “Manifesto contro la pastasciutta”, dove si proclama: L’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana. Giacché da questo alimento amidaceo… ne derivano: fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo. Qualche giorno dopo Marinetti viene sorpreso in un ristorante a divorare spaghetti. La notizia finisce sui giornali e un anonimo non manca di canzonarlo in rima: Marinetti dice Basta, / messa al bando sia la pasta. / Poi si scopre Martinetti / Che divora gli spaghetti. Il proclama marinettiano era comunque motivato, l’intento era incentivare il consumo di riso, di cui l’Italia mussoliniana era una forte produttrice a fronte della scarsità del grano.
A sconfessare la condanna futurista ci hanno pensato gli italiani continuando a fare della pasta il loro piatto nazionale, e in proposito, Giuseppe Prezzolini, brillante letterato e scrittore fiorentino, in Maccheroni & C. nel 1958, scriverà: Gli spaghetti hanno diritto di appartenere alla civiltà come e più di Dante, perché a suo dire […] l’opera di Dante è il prodotto d’un singolare uomo di genio, mentre gli spaghetti son l’espressione del genio collettivo del popolo italiano. E aggiungeva: La cucina italiana è una filosofia della vita, perché La filosofia non si trova solo nei trattati dei professori che ne portano il nome […] anche il piatto di spaghetti che abbiamo sulla tavola è importante quanto una dottrina filosofica, o rappresenta, nell’affermazione che facciamo della sua importanza e del suo valore, una filosofia. Ma Consumare un piatto di pasta può essere rivelatore: dal modo col quale mangi gli spaghetti… una persona acuta scoprirà anche qualche tratto del tuo carattere, se sei avido, avaro, frettoloso, timoroso, impetuoso, meticoloso, cauto, disordinato, distratto. Bene, ora, e per il futuro, siamo tutti avvertiti.
DA DOVE ARRIVA (E QUANTO COSTA) IL GRANO PER FARE LA PASTA ITALIANA
Dato che di pasta ne produciamo tanta (secondo AIDEPI, 3,2 milioni di tonnellate nel 2016), serve tanto grano di qualità per coprire il fabbisogno medio dell’industria della pasta. La maggior parte ce l’abbiamo in casa. Dal 1967, a fronte di una superficie agricola destinata al grano duro sostanzialmente invariata (circa 1,2-1,4 milioni di ettari), le rese dei campi italiani sono triplicate. Ma la produzione media di 4 milioni di tonnellate annue è sufficiente a coprire solo il 70% del necessario. Questo è il primo, ovvio, motivo per cui siamo obbligati a importare grano dall’estero (il 30% o il 40% del totale a seconda dell’annata). E i pastai italiani lo fanno, da sempre, scegliendo i migliori grani prodotti in aree vocate come Francia, Australia, Messico e Nordamerica. Infatti anche all’estero c’è un ottimo grano: l’83% del grano estero importato per fare la pasta è di qualità superiore, con un contenuto proteico oltre il 13%. Proprio per questo i grani migliori al mondo che importiamo vengono pagati circa il 15% in più di quello nazionale.
GRANO ESTERO NELLO PASTA ITALIANA? Sì, MA SOLO SE AL TOP. E NE IMPORTIAMO SEMPRE MENO
Asserisce Emilio Ferrari, Presidente dell’Unione delle Associazioni dei Semolieri dell’Ue. “Non esiste una sola varietà di grano: ce ne sono tante, con caratteristiche diverse e in grado di adattarsi a luoghi diversi e solo alcune sono adatte alla pasta. In Australia, dove il clima è desertico, le rese sono molto basse, ma la qualità del grano è alta per contenuto proteico, qualità del glutine, colore e peso specifico del chicco. Dal Sud della California e dall’Arizona scegliamo varietà pregiate, che in alcune annate arrivano a costarci anche il doppio del migliore grano duro italiano. Quello messicano è molto vitreo e ha una resa più alta. In Montana e nel Canada, invece, gli agricoltori hanno trasformato le barriere climatiche e ambientali in un punto di forza, spostando in primavera il ciclo di coltivazione. Lì il terreno è fertile grazie al clima più freddo che rallenta il metabolismo della sostanza organica. E poi il grano viene coltivato in zone poco sfruttate o sottoposte a rotazione colturale. Tutti fattori che, a fronte di rese molto basse (meno della metà che in Italia), favoriscono tenore proteico e indice di glutine molto alti. La qualità del grano francese, che ha un ciclo autunnale-vernino come quello italiano, è invece favorita da una filiera estremamente organizzata, dove i raccolti sono ottimizzati con stoccaggi differenziati a seconda della qualità, il Governo sostiene la ricerca di nuove varietà di frumento e c’è un sistema di redistribuzione del reddito agli agricoltori virtuosi. Proprio quello che noi pastai stiamo cercando di implementare anche in Italia”.
Dunque importiamo grano di qualità. E se il 30% del fabbisogno (circa 2 milioni di tonnellate) sembra tanto, è meno della metà di 200 anni fa, quando questa percentuale era del 70%. Ma molto c’è ancora da fare per garantire all’Italia autosufficienza qualitativa su questa materia prima.
Allora come oggi, il secondo motivo per cui importiamo grano dall’estero è perché non sempre e non tutti gli anni il grano italiano raggiunge gli standard qualitativi previsti dalla legge di purezza. Lo stesso Ministero dell’Agricoltura informa (analisi del Crea riferiti al periodo 2011-2016) che solo il 35% del grano italiano ha contenuto proteico superiore al 13% e circa il 30% del grano duro prodotto in Italia è di qualità medio bassa, con un contenuto proteico inferiore al 12%, che lo rende non adatto alla pastificazione.
“In Italia abbiamo un ottimo grano – afferma Paolo Barilla – e infatti noi pastai acquistiamo tutto quello adatto a fare la pasta. Purtroppo questa qualità non è omogenea e ogni anno parte del raccolto è per noi inutilizzabile. Dobbiamo tenere conto che nella trasformazione da grano a semola si perde circa 1 punto percentuale di proteine, quindi per fare la pasta all’italiana serve un grano con almeno l’11,5% di tenore proteico”.