Asfalto sbrecciato, intonaci mangiati dal sole, stradine scoscese in mezzo a condomini anni ’60, con i vecchietti seduti fuori dai bar. Poco distante il mare, dall’altra parte la campagna con una distesa tubolare di serre nell’aridità desertica dell’entroterra, ocra sul giallo dei castelli in rovina. Non è una Sicilia da cartolina, quella dove Pino Cuttaia ha apparecchiato la sua Madia: quotidiana e stropicciata come la sua cucina. Dietro l’ingresso dimesso, fra un compro oro e un centro parati, sotto un balcone familiare, il lungo corridoio immette con una certa riluttanza nella saletta appena ristrutturata. Lignea di rovere e lineare fino alla spigolosità, illuminata da una vetrata che dà su piante accatastate un po’ a caso.
Un piccolo mondo a parte, senza infingimenti estetici, più che mai distante dalla Ragusa reboante dell’altro fuoriclasse siciliano, Ciccio Sultano, avvolto nei colori saturi di una dimora borghese. Classico anziché barocco, ma di una classicità dimessa e affabile, domestica e vivente, ruminata da millenni di consuetudine plebea con la perfezione aurea della grande storia. Quella che ribolliva ogni giorno sui fornelli aperti di casa Cuttaia, sotto mestoli rigorosamente femminili. “La mia avventura è cominciata per caso. Fin da piccolo ho subito il fascino della ristorazione, per quanto mangiar fuori fosse tutt’altro che un’usanza familiare. Quando ero solo non riuscivo nemmeno a pranzare, tanto che mia nonna era costretta a invitare un amichetto. Se poi in Germania andavamo al bar con papà, ripeteva che dovevamo tornare a casa, dove tutto era meglio.
LA CHIAMATA
Una frase che mi è rimasta dentro. Poi successe che in Piemonte, dove mi ero trasferito per cercare lavoro, un amico mi chiese di dargli una mano la sera per lavare i piatti, io gli risposi che era pazzo e lui per convincermi promise che avrebbe stappato una bottiglia di Champagne, vino che non avevo mai bevuto e che mi incuriosiva tantissimo. Ed è stato così che sono entrato nel settore, dalla porta sul retro. All’Olivetti mi sentivo un numero, ogni mattina in fila per timbrare il cartellino; ma continuavo a fare l’extra, anche per arrotondare. E un giorno, mentre tagliavo una cipolla, ho avuto ‘una chiamata’, mi sono sentito libero di affettarla come volevo e così ho scoperto la libertà, attraverso una cipolla. La mia famiglia era contraria, ma mi sono licenziato dalla fabbrica, perché avevo capito che il cibo poteva essere uno strumento per comunicare. Sono andato a cucinare nel Biellese, anche nei campi da golf, e ho iniziato a sperimentare di pomeriggio. Poi ho conosciuto mia moglie Loredana, che lavora qui in sala, sono tornato a Licata e nel 2000 ho aperto la Madia. Inizialmente non è stato facile: l’educazione alimentare era ancora lontana, la cucina in giro era anni ’80, sembrava che il cuoco dovesse essere complice dei casini altrui, trasgredire le regole, mentre a casa si mangiava ancora come si deve. Io però non volevo essere complice, mi sono ribellato e sono diventato anticommerciale. Ho fatto le lotte. Ricordo, che siccome c’era già il corridoio, a volte capitava qualcuno per caso e io dicevo che ero pieno, mentre la sala era vuota. È stata la mia incoscienza, il mio credo.
Quelli che conoscevo invece passavano con un auspicio: ‘Speriamo che cucini come lava le pentole’, perché mi piaceva lucidare i tegami in alluminio con il sapone di Marsiglia e le pagliette, ne avevo fatto un’arte creando rispetto in un luogo che non veniva rispettato. Tanto che i cuochi chiedevano il permesso per usare una pentola oppure per lasciarla. Ancora oggi alla Madia non ho lavapiatti, per una questione di manualità, per l’importanza di fare pulizia e la sensibilità che ne consegue, in automatico. Come nella gestione del frigo, un altro gesto domestico. Non si può essere artisti senza lavare un tegame. Rappresenta il rigore verso se stessi e il proprio mondo, senza il quale si è cuochi a metà.
LA CUCINA DEL CUORE
Pian piano poi tutto è cambiato. Subito dopo il riconoscimento dell’Espresso come giovane dell’anno, nel 2006 è arrivata la prima stella Michelin e nel 2010 la seconda. Anche la mia cucina si è evoluta, entrando in simbiosi crescente col prodotto. Sono diventato più imperfetto, appropriandomi della cucina domestica e del gesto degli artigiani, facendomi custode di tanti saperi quante sono le maestranze coinvolte in un’attività ristorativa, come preparare il pane o una cagliata. Quando se ne andranno le ultime persone anziane, che cucinano ancora in casa, il tempo per certe cose mancherà a tutti tranne che ai cuochi. Ed è questa la nostra missione. Faccio una cucina materna che vuole toccare il cuore, non troppo cerebrale, perché sarebbe presuntuosa; piuttosto incline alla piacevolezza e familiare. Di pensiero ma non astratta, non certo una partita a scacchi. Anche il bambino deve poter dire: ‘buono’, che è la massima espressione di una pietanza. Non mi piace osare, anche se sono un creativo. Cerco il risveglio, il guscio domestico, un certo comfort contadino. Per esempio non uso spezie esotiche, perché i miei profumi sono quelli di tutti: gli agrumi, il prezzemolo, la cipolla, l’aglio, al massimo lo zafferano e la cannella”.
Un autodidatta, quindi. “I miei corsi sono stati mangiar fuori e leggere qualche libro. Ho sempre sentito fin dove potevo arrivare e lì mi sono fermato. Per esempio a una conferenza di Ferran Adrià decisi di abbandonare l’auditorium perché mi stava impoverendo, mostrando un futuro cui dovevo arrivare da solo. La cucina tutt’intorno l’ho sempre osservata in maniera distratta, per non avere la tentazione di copiarla ma proseguire nel mio percorso personale. Sono cresciuto con le pecore che passavano sotto la finestra e il pastore che lasciava il latte, ogni pomeriggio arrivava il pesce nel quartiere e la sveglia era una donna che gridava cosa aveva raccolto il marito. Tutto questo mi ha addestrato all’espressione dell’ingrediente attraverso la stagionalità e la sostenibilità.
Ma non basta: il cuoco contemporaneo deve essere un visionario, capire dove va l’ingrediente e cosa va preservato al fine di salvare la propria terra. Quasi tutto ciò che porto in tavola è locale, per una forma di rispetto verso chi arriva in Sicilia, magari dopo migliaia di chilometri, e perché non cerco sapori codificati a livello nazionale. Lo stesso mare è un raccolto: adesso iniziano le seppioline e i calamaretti, mentre finiscono i polpetti; compaiono e poi spariscono le uova, variano le dimensioni delle triglie. Prodotti che spesso mi offrono un’altra occasione per valorizzare il ‘difetto’ e uno stimolo ulteriore all’immaginazione. Dieci anni fa usavo il caviale per nobilitare il piatto, oggi dico che la cucina è una livella, sotto cui ricco e povero non esistono più”.
La narrazione, per via di understatement, è quella di una microstoria siciliana: un tinello poetizzato dall’eleganza e dalla pulizia gustativa, da una semplicità apparente che innesca con un colpo di nacchere la danza del carnevale, in modo da rivestire di ignoto quanto sembrerebbe banale e quotidiano. I menu degustazione sono tre: Per le scale di Sicilia a 90 euro; Illusione, che ne costa 110, e il Mare inaspettato a 120. In sala, con Loredana, officia il sommelier Vincenzo Corrente, che amministra una carta dei vini da 700 etichette, dove la Sicilia è ben rappresentata. Vi figurano i classici dello chef, piatti che lo hanno portato a essere quello che è. Per esempio, l’uovo di seppia (dove l’albume è mollusco frullato e modellato in un guscio di gallina, ripieno di tuorlo al nero), che ha battezzato il laboratorio di Cuttaia a pochi metri dalla Madia, consacrato a paste e sughi popolari. Ma anche la finta pizza con il cornicione soffiato in forno a calore altissimo, al cui interno giace una guarnizione composta di nasello salato e affumicato in casa con le pigne, spuma di patate, secondo la stagione porcini crudi, polvere di pomodoro o scorzone: il primo di una serie di understatement sotto forma di trompe-l’oeil, dove la meraviglia nasce dalla tecnica ma attraverso gesti quotidiani. Succede anche nella Nuvola di caprese, mozzarella destrutturata con la pelle di latte all’esterno e una spuma di bufala all’interno, per estremizzare le consistenze, più una spremuta di datterino, un giro d’olio e una fogliolina di basilico. In alternativa al sifone, può essere preparata come una ganache da pasticceria grazie alla ricchezza di panna, da montare con la frusta dopo congruo riposo.
Memorabile Sole e vento, un pane cunzato, cioè condito, che rinnova il rito dell’extravergine a inizio pasto. Quindi l’acciuga di Licata su una strisciata di concentrato di datterini crudo e senza sale, al naturale come il pelato di Lopriore, da scarpettare con il pane e intingere nell’olio da cultivar Nocellara. “Mi è servito a eliminare i panini conditi, per devozione verso un alimento sacro. Lo preparo con grani antichi: farina madonita, semola siciliana, tumminia. In modo da far sentire i profumi e il companatico di una volta”. Oppure la fettina di alalunga cotta a bagnomaria, come si usava per i convalescenti, con un esito di shabu shabu domestico, servita con olio, limone e un seme per l’amaro e l’imperfezione del gesto materno, pregno di amore. Semplicemente la vita, secondo una simbologia palmare, nitida nel minimalismo della composizione. “Uno dei piatti che attualmente mi sento più addosso, per l’elogio dell’imperfezione e l’emozione che sprigiona”.
Imperfetti, perché diversi l’uno dall’altro, sono anche i calamari di Licata, che Cuttaia ha voluto uniformare ricavandone una pasta fondente dalle sembianze orientali, farcita di dolcissimi tenerumi e ricotta, come un raviolo alle erbette, e servita con una salsa di acciughe e bottarga tutta umami e sapidità. Mentre il maialino nero dei Nebrodi innesca una nuova illusione, scambiando cucina classica ed etnica: il capocollo e la puntina, cotti nel tegame, vengono serviti con un fondo che non è il classico jus, ma un sugo d’arrosto bagnato all’acqua di pomodoro, per una sensazione di carne in umido della domenica. Glassa sì, ma acida e mediterranea. In chiusura cachi, cialde di castagne e melagrana sprigionano il calore di un falò contro il ripiegamento autunnale. Ed è la frutta di casa a fine pasto.
Ristorante la Madia
Corso Re Capriata F., 22 – Licata (AG)
Tel. 0922 771443
www.ristorantelamadia.it
info@ristorantelamadia.it