Non passa inosservato, Marcello Trentini, nelle file della nuova cucina italiana. Per i capelli rasta che si avvitano nel gorgo del turbante, quasi una toque rebelde che lascia presagire la babele culinaria; come per la gestualità incontenibile e sfrontata, quasi una maschera nella quaresima di una cucina che appare oggi un po’ troppo compassata. Un’esplosione vitalistica proprio all’ombra della Mole Antonelliana, brillante di un sole diverso da quello che bussa pallido alla cortina celeste del nord, dietro il pinnacolo che punzecchia l’atmosfera.
Eppure Marcello è torinese fin nel midollo, in tutti i sensi e in tutti i modi. Il DNA innanzitutto, se è vero che la mamma, maestra delle elementari, e il papà, commerciante di abbigliamento, senza alcun addentellato nei métiers de la bouche, quindi, hanno incorniciato le loro esistenze in un quadrivio del centro storico. Lo stesso in cui è nato e cresciuto lui, scoprendo ben presto il gioco culinario. “A sette anni ero già intenzionato a fare il cuoco perché vivevo ludicamente la cucina. Certo mia nonna era molto brava nei suoi piatti di casa, e mia mamma ha tuttora una bellissima sensibilità, nonostante la lunga deriva in stile Weight Watchers della fine degli anni ’70; ma non è stato questo a influenzarmi. Piuttosto i miei genitori e i miei zii erano soliti uscire in doppia coppia e, quando i soldi giravano, andavamo a mangiare fuori ogni sabato sera, talvolta in locali di livello come il Muletto o il Gatto nero, che ai tempi era il ristorante degli Agnelli. Avevano il tavolo sempre prenotato e telefonavano solo per disdire, come in quello che poi è diventato il Mago Rabin, e che allora si chiamava il Gambero blu. La domenica mattina, poi, io e i miei cucinavamo le basi per la settimana a venire, in modo da avere sempre qualcosa da mangiare che non fosse confezionato fino alla domenica successiva. Lo chiamavamo il gioco dei tre chef e mi esaltava”.
La vocazione precoce tuttavia non l’ha sottratto al percorso accidentato degli autodidatti totali: “A 13 anni ero intenzionato a frequentare l’alberghiero, ma mia madre si è opposta.
Dovevo fare a tutti i costi un liceo, e io ho scelto quello artistico, che oltre a piacermi sembrava più abbordabile. Senza per questo smettere di cucinare: compravo le dispense di Marchesi in edicola per cimentarmi a casa”. Un’infarinatura artistica che è poi tornata utile nella definizione vivida degli impiattati e nella sensibilità tattile verso le tessiture, evitando gli incartamenti concettuali che qui non sono di casa. La rammentano gli stessi decori del locale: “Desiderando un’insegna pittorica che rappresentasse il sole, mi ero rivolto ad alcuni amici pittori, ma nessuno mi soddisfaceva. Così un giorno sono andato da Andrea Bertotti, che mi ha mostrato delle prove e alla fine è sbottato: ‘Fattelo tu’. Mi ha messo sotto il naso un foglio di giornale, l’ha spennellato di colla di pesce e mi ha passato gli acrilici. Non dipingevo dalla fine della scuola e ne è uscita fuori l’icona giusta”.
Il primo grembiule però era già stato allacciato in un circolo ARCI durante il servizio civile, il secondo al Ristorante della Rocca con la figlia di Moreno Grossi, eminenza della ristorazione torinese. E ancora le stagioni in Liguria, le peregrinazioni a Roma e Londra, in Valtellina o in Centro America, presso case senza troppe pretese. Finché, nel 1998, non è approdato al Sorì, vineria il cui titolare ha intuito in lui un potenziale inespresso, tanto da portarlo in giro per ristoranti stellati, a cominciare dal folgorante Davide Pelluda. Cosicché in carta sono approdati lampi del bel mondo, dal jambon persillé al torchon di foie gras.
Solo nel 2003 la gavetta ha ceduto il passo al Mago Rabin (intitolato all’uomo nero dei bambini torinesi), ristorante aperto con la moglie Simona, già aspirante farmacista, in sala. All’inizio una semplice trattoria tutta bistecche, salumi e stinchetti di maiale al forno, ampliata e ristrutturata fino all’attuale ristorante gourmet da 8 tavoli, in un esercizio di resistenza stoica alle sirene dei parenti miliardari in Brasile.
Baciato dalla stella Michelin, oggi il Mago Rabin è affiancato dalla piola contemporanea dell’Enomagoteca gestita da Simona, la cui carta premia classici come la finanziera e gli agnolotti. Sono il teatro del chiasmo perfetto, giacché Marcello cura la cucina anche di fronte, mentre Simona è l’autrice della carta dei vini, nella condivisione del personale di brigata e degli stessi clienti che attraversano o meno la strada secondo le occasioni. In cantina, oltre ai must drink italiani, c’è spazio per molta Francia (il sommelier Mathieu, parigino, si è formato al Louis XV prima di officiare per tre anni da Quique Dacosta), sotto il segno di una piacevolezza laica che non sposa scuole di pensiero.
Dietro le quinte non scarseggia l’high-tech (roner, distillatore, pacojet), ma la cucina resta di pancia, nella concezione e soprattutto nella golosità immediata. Alcuni classici presidiano la carta, senza però smettere di evolversi; come pure i piatti della memoria (il vitello alla Cavour, l’insalatina di coniglio al tartufo nero, gli agnolotti di nonna Lucia ripieni di brasato). A colpire tuttavia è l’incessante tourbillon delle contaminazioni, che miscidano carne e pesce, sapori sabaudi e forestierismi, arsure equatoriali e brinate improvvise, spunti archeologici e incursioni venusiane, in un gioco concentrico che inghiotte i paralleli del mondo. Niente di strano, se si considera che da queste parti nessuna parete stagna è mai stata interposta fra il vitello e il tonno, il sottolio e il coniglio, il manzo e l’acciuga impegnata nel salto acrobatico dalla vicina Liguria.
Idealtipo del genere “pescecarne”, temibile predatore di categorie costituite, è l’oyster-steak tartare, dove la classica carne cruda al coltello è sormontata con lubrica malizia dall’ostrica cruda e nappata di crème fraîche al lime, come un tempo si faceva con l’acciuga sciolta al tegamino. Altro classico, la lingua fondente e tostata al burro di cacao con gamberi rossi crudi, mandarino siciliano e germogli di porro per la nota piccante, piatto tecnico, freschissimo e cangiante. Mentre il croque-monsieur di crostacei inserisce nel frullatore l’alto e il basso e il foie gras tonnato, un carpaccio con torchon fatto in casa e scorza di limone, fa roteare ancora una volta il mappamondo.
Fra i primi risaltano le linguine con calamari scottati mantecate al brodo di calamari grigliati e gli spaghetti con burro, pane e acciughe, un concentrato di sud addolcito dal burro padano, quasi una declinazione intimista degli ircocervi più smaccati; nel comparto secondi le animelle di sanato scottate e fritte con vichyssoise e caviale affumicato e il solare baccalà accomodato (in realtà black cod), che rievoca l’icona della casa grazie al disco della bisque aranciata.
Poche sorprese dalla colonnina a destra del menu: accanto alle tre degustazioni (le 5 “corse” della Memoria, le 7 dei Classici e le 9 A Mano Libera, rispettivamente a 40, 60 e 80 euro – ma c’è anche un imprevedibile Chef Table per i clienti affezionati), si può mangiare alla carta lasciando sul tavolo 18 euro ad antipasto, 16 euro a primo e 24 euro a secondo.
Magorabin
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