15 anni fa scrivevo che in Italia chi aveva qualche soldo da investire, apriva indifferentemente una boutique o un ristorante. Indifferentemente, secondo una propria hobbistica inclinazione.
Bene, oggi il quadro è cambiato: chiudono boutique e al loro posto nascono ristoranti. Di prodotto, di tradizioni regionali, di tendenze vegane, vegetariane, crudiste, monografici di carne, pesce, formaggi, uova…
C’è una gran voglia in tanta gente di trasformare la propria passione per il cibo e per la cucina in un’esperienza imprenditoriale in grado di trasmetterla agli altri, questa passione, trasformando un hobby in un lavoro.
Ma la passione non può sostituire competenza e professionalità, così succede che, statisticamente, nell’arco di tre anni tanti ristoranti costruiti sull’entusiasmo siano costretti a chiudere i battenti.
Fateci caso: sopravvivono di più certi locali un po’ banali ma di lungo corso, che talune realtà salutate alla loro comparsa come innovative per l’appassionata ricerca e la proposta di prodotti realmente eccellenti. Insomma, saper fare il proprio mestiere paga più che inseguire un sogno.
La morìa è più evidente in provincia che nelle grandi città perché crisi ed eccesso di concorrenza riducono molto sensibilmente il numero, comunque più esiguo rispetto ai grossi centri abitati, della possibile clientela.
Ad aggravare la scena di ristoranti abbastanza pieni solo nel fine settimana – tanto che il personale dipendente diventa in breve più un peso da mantenere che una risorsa – è un fisco predatore e una burocrazia che di fatto boicottano qualsiasi velleità imprenditoriale.
Dunque chi resiste non è necessariamente il più bravo a cucinare o il più generoso a dispensare prodotti di qualità, ma il più bravo ad anticipare le criticità gestionali, ad applicare le leggi del marketing, a studiare l’offerta in base alla domanda, a sapersi imporre sul web, a essere manager più che poeta del cibo, insomma, il più bravo a fare i conti. È poco romantico, lo so, ma realista.
Il fatto è che se vai male, la discesa è rapidissima e non è che puoi sperare che arrivi Cannavacciuolo a salvarti l’impresa.
In sostanza, parafrasando prosaicamente la frase di Oscar Wilde “meglio avere un buon cuoco, che una buona reputazione”, potremo concludere che è meglio avere o essere un buon contabile, che un buon cuoco.