15/03/2010
I diversamente giovani come me sono cresciuti con quei tre/quattro riferimenti cognitivo-comportamentali che per anni sono stati alla base di necessarie certezze: eravamo convinti dell’esistenza di una destra e di una sinistra, del fatto che la televisione è un servizio pubblico, che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, che non si abbina il rosso col turchino, che la grande cucina è rappresentata da Gualtiero Marchesi. Tra tutte le certezze crollate, quella che ha resistito all’assalto del tempo, delle mode e del degrado è proprio l’ultima: pur con l’avvento fisiologico (ma anche fisioillogico) – di tante meravigliose nuove leve – il monolite Marchesi è ancora lì a darci la speranza che qualcosa sopravvive al revisionismo storico, al negazionismo di comodo, alla bulimica anoressia dell’informazione nel nostro Paese.
Malgrado la tendenza – tutta italiana – di denigrare qualsiasi nostro valore solo per il gusto di andare controcorrente, malgrado la critica gastronomica abbia cercato di intaccarne lo smalto con giudizi e punteggi attualmente in ribasso, l’assioma Marchesi-grande cucina resiste.
Certo, per l’Italia Marchesi non è quel monumento che in Francia ancora è Bocuse (i francesi, come sappiamo, non sono così scemi da screditare i propri “prodotti DOP”) però, ora che persino Adrià chiude il suo celebrato El Bulli per crisi ideologica, noi avremmo bisogno di alimentare il suo mito e lanciare nuove sfide.
La mostra che Milano dedica al Maestro da marzo a maggio è finalmente la prova che anche in Italia si può smettere di celebrare i grandi personaggi solo “in memoria” e La Madia – che a Marchesi ha sempre offerto il tributo del proprio rispetto con non sospetta continuità – gli dedica questo numero del giornale.
Con la stima di sempre.