C’è un Daniele Cernilli che improvvisamente, dopo decenni di quieta accettazione dello status quo, comincia a criticare sul web esosità, limiti ed inadeguatezze dello star system enogastronomico italiano; c’è un Davide Paolini autore de “Il crepuscolo degli chef” che stigmatizza la mistificazione televisiva responsabile, soprattutto presso i giovani, di banalizzare il lavoro duro della cucina; c’è prima di loro l’ineffabile Camilla Baresani autrice del romanzo dal titolo epifanico “Gli sbafatori” nel quale si racconta l’imbarazzante mercimonio professionale perpetrato da un giornalista enogastronomico in disarmo e da una giovane foodblogger in svendita per un posto al sole.
E poi c’è lui, Valerio M. Visintin, che dal comodo pulpito di un invidiabile anonimato (è l’unico e più famoso critico mascherato d’Italia, una sorta di Zorro che con una penna di straordinaria affilatezza incide la grassa panza di un settore in cui la critica è solo compiacente e clientelare) rileva e auspica il formarsi di una crepa nel sistema gastroletterario nazionale.
Che dire? Bene, perché si comincia a sgretolare un muro omertoso di connivenza tra cuochi e pseudocritici; male perché vengono rilevate le ovvie problematiche del settore, ma sempre in modo cauto e generico. Chi osa di più, lo fa dietro il paravento del romanzo o della maschera.
Questo significa che si teme un’intoccabile casta soprattutto per ragioni di carattere relazionale (giornalisti e cuochi, critici e produttori di vino, si conoscono e spesso fanno affari insieme) e che chi esercita libertà di critica rischia l’ostracismo.
Personalmente, mettendoci sempre la faccia, da anni denuncio una situazione melmosa dove i giornalisti sono diventati l’ufficio stampa di quello o quell’altro chef, i promoter o i PR di questa o quella cantina, e dove ormai un’analisi competente e casomai critica è pratica sconosciuta in un Paese al 77° posto al mondo per libertà di stampa.
E dove l’autocensura e l’informazione compiacente si dimostrano sempre più spesso peggiori della censura.