Sarà capitato anche a voi. Postare su un vostro profilo social la foto di uno o più piatti, della cena stellata nel locale per il quale avevate faticosamente messo da parte euro su euro (no, scherzo, lo so che a voialtri le cene le offrono) e tra i like, i cuoricini e i commenti positivi trovare quello del vostro amico non-food che immancabile come un predessert entra a gamba tesa con il puntuto commento: “Bah, tre maccheroni? È la dose che mia nonna mi dava per sapere se la pasta era cotta”.
Se non siete gente dal vaffa facile quanto il sottoscritto è probabile che cercherete con pazienza di spiegare all’amico che la pietanza immortalata fa parte di un percorso di degustazione comprendente altre settordici portate, ma nella logica social che impone alla controparte giammai di aver torto egli finirà per controbattere ancora che comunque per la cifra che avete speso – che probabilmente lui nemmeno conosce – avete mangiato poco e che lui di sicuro si sarebbe alzato da tavola con la fame, il tutto seguito da farneticazioni di dopocena a base di pizza e fast-food per combattere i morsi dello stomaco vuoto non placati.
La passione per il cibo, come tutte le passioni, è una brutta bestia, tanto brutta quanto è forte la passione stessa.
È quella cosa che ti spinge a fare 1000 km andata e ritorno in giornata per andare a pranzo nello stellato di cui sopra, a dare la caccia a voli low-cost in direzione Girona o Copenaghen, oppure davvero a mettere sulla mensola un porcellino di terracotta da riempire rinunciando alle sigarette e rompere quando sarà pieno, per realizzare il sogno di percorrere ameno una volta il ciottolato di Via Stella a Modena o perdersi lungo la via che porta all’ex-convento di Castel di Sangro.
Siamo fatti così, non c’è niente da fare, destinati a subire sempre e comunque critiche per via dei soldi che spendiamo al ristorante, da parte di gente che trova intollerabile spendere anche solo più di 30 euro a cranio per mangiare fuori, ma che magari il giorno prima ha speso mille euro per uno scarico in titanio per la propria moto o per un paio di scarpe firmate o una canna da pesca o per la stessa cosa per cui noi non cacceremmo un ghello.
Pur ripensando a tutte le volte che ho sorriso sardonicamente ascoltando lo chef di turno raccontare di “non vendere cibo bensì [pausa, puntini e virgolette] emozioni”, mi ritrovo ad ammettere che forse ha ragione lui. Paghiamo (non tutti) non certamente per nutrire il nostro corpo, talvolta forse nemmeno lo facciamo per appagare i nostri sensi o il nostro gusto e voglio ammettere candidamente, qui davanti ai miei 3 lettori, di non avere sempre ben compreso nemmeno io il senso, la complessità e le sfumature di gusto di ciò che stavo assaggiando.
Lo facciamo – quello sì – per nutrire il nostro ego. Così come il mio amico che ha appena montato lo scarico in titanio e non saprà che farsene di quei tre cavalli in più, o come la mia amica cessa (perdonami, amica) che resterà cessa anche caracollando sulle fiammanti Loboutin e l’altro amico ancora che non pescherà né di più né meglio con la sua canna in carbonio da un fantastiliardo. Esattamente come tutti loro anch’io, per il solo fatto di essermi seduto per una volta a quel desco, so che alla fine dell’esperienza mi sentirò meglio. E all’indomani dell’esperienza o del fresco acquisto e di totcento euro di carta di credito volati come lacrime nella pioggia, ciascuno di noi sarà di nuovo pronto a rompere le scatole ad altri per le loro scelte che non capirà.