Un po’ Toscana, un po’ Liguria, un po’ Emilia. Non ha grandi salumi, la Lunigiana, ma la cultura appenninica del maiale si incunea nella sua cucina con la decisione di una lama seghettata. È il caso del panigaccio, cugino di quei pani e affini che lungo la dorsale montuosa fumano un po’ ovunque, in attesa dell’abbraccio con la fettina giusta: tigelle, crescentine, piadine, gnocco fritto, sgabei, torte al testo. La famiglia delle preparazioni da farcire variamente è allargata come si usava una volta.
Il panigaccio, in particolare, valica difficilmente i confini di Podenzana, minuscolo borgo dell’entroterra boscoso di Massa Carrara dove la famiglia (guarda caso) Podenzana dal 1978 conduce Da Gambin, dal soprannome del nonno Attilio, santuario di una specialità riottosa e schietta come le genti di queste parti. Oggi è il turno di Matteo e Roberto, rispettivamente in sala e in cucina; ma ricette e utensili non sono cambiati. Piuttosto si sono forzatamente moltiplicati gli sforzi per rianimare una tradizione minacciata dallo scadimento delle materie prime. A dimostrazione del fatto che la tradizione è oggi più che mai una forma di resistenza, anzi una conquista permanente.
La strumentazione è affascinante: quasi un pianoforte gastronomico con i suoi tasti in terracotta e la cassa per il fuoco a legna. Viene acceso un’ora e mezza prima del servizio dentro il camino su ruote, confezionato artigianalmente, o in quello interno, in modo che i testi possano raggiungere la temperatura di 380-410 °C, da misurare non con il termometro ma fisicamente da parte dell’operatore, che accosta palmo o guancia. Vi si versa un impasto preparato al momento, per evitare fermentazioni, che sull’incandescenza sviluppa un’alveolatura minuta, che regala fragranza dentro la crosta croccante. Ma di lievito non c’è ombra: solo acqua, sale e farina.
“Ed è su questo che ci siamo concentrati”, racconta Matteo. “Siamo andati alla ricerca di una farina vicina a quella di una volta, prima degli anni ’60, quando il panigaccio si faceva nelle case. La comunità montana aveva selezionato alcune varietà di grani e noi le abbiamo testate. Per l’ultimo raccolto e per il prossimo abbiamo scelto il bolero, che non è autoctono, ma rappresenta un buon compromesso con l’immaginario del panigaccio, in termini di colore e di gusto. Viene coltivato nella piana di Marinella da aziende agricole cui forniamo il seme, assumendoci l’impegno di acquistare l’intero raccolto e pagando il rischio che l’annata non sia delle migliori. Tanto che usciamo largamente dai prezzi di mercato, quasi raddoppiati. La molitura avviene in un mulino della zona, al grado 1. Per quanto riguarda i formaggi abbiamo lo stracchino da latte di mucca pontremolese di un caseificio vicino, ma per i salumi ci spostiamo verso Parma e Piacenza. Il panigaccio bollito rappresenta a nostro giudizio una contaminazione recente col testarolo, un prodotto simile per impasto, che però ha dimensioni maggiori e viene cotto su testi in ghisa; lo serviamo anche noi, col pesto o il Parmigiano”.
Ma il salvataggio della cultura gastronomica dell’area, attraverso la sua specialità simbolo, coincide con la tutela di altri saperi e produzioni. Il legno è tutto di castagno da aziende locali, per il profumo del territorio; le formine di terracotta sono quelle prodotte dall’ultimo artigiano della zona, Marco (guarda caso) Podenzana, in forze a Barco. “Negli ultimi anni, anche per la crisi, è nata una miriade di locali dedicati al panigaccio, che però utilizzano forni a gas o elettrici, senza aroma o tipicità”. A parte l’associazione di ristoratori, l’unico marchio è infatti quello collettivo geografico, mentre la regione Toscana ha riconosciuto il PAT. In abbinamento si scollina volentieri verso i bianchi della vicina Liguria.