Dal vivo sembra ancora più “caruso” che in foto, Davide Guidara, imberbe come un fanciullino pascoliano nello sterminato Eolian di Milazzo, moderno quattro stelle avvitato sulle scogliere di fronte alle isole Eolie. È l’ultimo arrivato nelle file della giovane cucina italiana con i suoi sparuti 22 anni, spesi a studiare la cucina con l’ardore dei predestinati. E fa effetto, dalla sua voce ancora tinnula, ascoltare dissertazioni squisitamente tecniche di cui pochi cuochi di qualsiasi generazione sarebbero capaci in Italia. Puer alla maniera di un Lorenzo Cogo del sud, incantato da gradi e molecole come da balocchi dorati.
“Sono qui da inizio giugno, per la prima volta chef. E sto ritrovando le mie origini, visto che sono nato a San Salvatore Telesino, un paesino di 3000 anime nel Beneventano, ma mio padre era siciliano, cosicché riaffiorano memorie di cibi e sapori lontani. A 13 anni sono entrato in cucina al Foro dei Baroni, poi a 15 anni ho avuto la mia prima esperienza stellata al Don Alfonso, da giugno a inizio ottobre, tanto che all’alberghiero di Castelvenere sono rientrato con 15 giorni di ritardo. Mi ha segnato soprattutto nel rispetto della materia prima, in particolare degli ortaggi di produzione propria. L’anno successivo è stato il turno del Mosaico di Nino di Costanzo, altrettanto formativo ed estremamente divertente. Dopo le Terrazze di Roma infine sono espatriato: al Sea grill di Bruxelles, da Michel Bras e al Noma per 3 mesi ciascuno. Ma forse non sono stato un bravo stagista, perché ero troppo preso dai miei pari. Un ragazzo americano che era stato a Eleven Madison Park o un brasiliano uscito dal Dom, con cui scambiavo ricette come fossero figurine.
‘Quella è importante, allora te ne do due oppure tre’. Ma non mi sono ancora fermato, e nemmeno i ragazzi in brigata. Il mio secondo Francesco Coppola andrà presto al Mugaritz, un altro cuoco all’Inkiostro, un altro ancora in un tre stelle svizzero. Io sono il più giovane, ma l’età massima è di 26 anni”.
Il risultato si lascia degustare nei due menu (5 e 7 portate, rispettivamente a 50 e 70 euro) e in cene sperimentali su prenotazione, dove vengono serviti piatti estremi come una brioche di alghe con finta panna vegetale, ricette ispirate a tagli rari e minori del tonno, tipici di Milazzo. Per esempio il risotto al Parmigiano con ragù forte di tonno, sul modello napoletano, il brasato di agnello preparato nell’affumicatore per 8 ore con tartare di cuore di tonno, il maiale con sanguinaccio ma di tonno. Sono preparati con ingredienti fatti in casa: oltre agli ortaggi coltivati su commissione, perfino il sale kelp da alghe e lo zucchero estratto dalla cosiddetta “bacca del miracolo” che cresce sul synsepalum dulcificum, una pallina rossa per le prestidigitazioni del gusto. “E se la metti in bocca, oblitera completamente il gusto del limone che succhi dopo. Perché è capace di ingannare i ricettori del gusto acido e amaro nell’arco di circa mezz’ora”.
È appena una riga dentro un enciclopedismo che lascia a bocca aperta. Il pane per esempio, da farine di grano russello e timilia, non è impastato ma lievita per autolisi durante due o tre giorni, per una forma di naturalismo radicale che non pregiudica l’alveolatura fine, quasi un perlage. Rustico e antico, nella consistenza e nella speziatura dei grani, viene servito in pagnottelle calde tagliate a spicchi con extravergine da cultivar nocellara o burro demisel fatto in casa.
Nella sequenza articolata degli appetizer risaltano lo sgombro affumicato a freddo con foglie di barbabietola e mousse di ficu, formaggio siciliano da latte di capra girgentana cagliato al lattice di fico, e l’alice marinata ma cruda, ovvero siringata con una soluzione di acqua, sale e aceto poco prima del servizio, per salvaguardare freschezza, livrea e turgore. Viene servita con alghe, finocchio fermentato, gel di arancia e tegola di olive, in modo da remixare la tipica insalata.
Fra gli antipasti cova invece l’uovo, presentato nella paglia come se fosse stato appena deposto. Quindi la spuma di albume tostato su padella rovente, frullato e sifonato, dal gusto arrosto ma dal bianco immacolato, con tuorlo confit in oliocottura a 65°C, acetosella rossa e glassa al tarassaco, in equilibrio grasso-amaro e in ricordo dell’uovo al tegamino con erbe dell’orto, specialità della nonna contadina. Le potenzialità sono enormi, la passione incalcolabile, la parabola ai suoi inizi. In attesa di qualche schizzo più mediterraneo che riporti al centro l’immediatezza della materia e di una maggiore concentrazione sul comparto dei primi.